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Il Metodo Scettico di Nagarjuna ed i suoi scopi

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Al cuore di ciò che è chiamato ‘scetticismo’ vi è il dubbio, una sospensione di giudizio sulle condizioni delle cose o sulla correttezza di alcune asserzioni. Ci sono naturalmente molte cose, sia nel mondo e in ciò che le persone dichiarano sul mondo di cui si può essere dubbiosi, si può accettarle, rifiutarle, o esserne scettici. Ma oltre alle molte differenti cose di cui può esservi il dubbio, ci sono anche diversi modi di dubitare. Il dubbio può essere casuale, come quando di notte una persona ne vede un’altra ed è incerta se quell’altra persona sia un amico; può essere di principio, come quando uno scienziato rifiuta di tener conto di cause non-materiali o divine in un processo fisico che sta investigando; poi può essere sistematico, come quando un filosofo dubita di una spiegazione convenzionale del mondo, perché è alla ricerca di una spiegazione di esperienza più fondamentale, onni-inclusiva, tipo Socrate, Descartes o Husserl (Nagarjuna fu maggiormente uno scettico di questo tipo). Esso può anche essere onni-inclusivo ed auto-riflettente, un’attitudine dimostrata dal filosofo Greco Pyrrho, che dubitava di ogni asserzione, incluse le sue stesse asserzioni a dubitare di tutte le asserzioni.

Di conseguenza, vi sono molti differenti tipi di scetticismo, come pure possono esservi differenti tipi di modi di dubitare. Nagarjuna fu considerato uno scettico nella sua stessa tradizione filosofica, sia dai lettori Buddisti che dagli avversari Brahmanici, e questo perché egli contestò l’essere assiomatici dei categorici essenziali presupposti e criteri di prova, assunti da quasi tutti nella tradizione Indiana. Ma, malgrado questo suo scetticismo, Nagarjuna credeva che il dubbio non doveva essere casuale, esso richiedeva un metodo. Quest’idea che il dubbio doveva essere metodico, che era un idea nata nel primitivo Buddismo, fu un’innovazione rivoluzionaria per la filosofia in India. Nagarjuna porta la novità di questa idea perfino col suggerire che il metodo di scegliere il dubbio non dovrebbe essere il suo, ma dovrebbe piuttosto essere temporaneamente prelevato dalla stessa persona con cui si sta discutendo! Però, alla fine, Nagarjuna fu convinto che quella disciplina, lo scetticismo metodico, porti da qualche parte, porti cioè specificamente alla saggezza ultima che stava al cuore degli insegnamenti del Buddha.

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L’interpretazione filosofica standard del dubbio nel pensiero Indiano era stata spiegata nella scuola di logica Vedica (Nyaya). Gautama Aksapada, l’autore del testo fondamentale dei Logici Brahmanici fu probabilmente un contemporaneo di Nagarjuna. Fu lui che formulò ciò che allora doveva essere una tradizionale distinzione tra due tipi di dubbio. Il primo tipo è il dubbio casuale su un oggetto che tutte le persone sperimentano nella loro vita di ogni giorno, quando nel proprio ambiente è incontrata una qualunque cosa e per varie ragioni la si prende erroneamente per qualche altra cosa a causa dell’in-certezza di ciò che l’oggetto precisamente è. Gli esempi usati nei testi indiani è il vedere una corda e prenderla erroneamente per un serpente, o vedere una conchiglia luccicante nella sabbia e prenderla erroneamente per argento. Il dubbio che può sorgere come effetto del realizzare che uno si sbaglia o è incerto su un particolare oggetto, può essere corretto da una successiva cognizione, per esempio dando un’occhiata più da vicino alla corda, o avere un amico che vi dice che l’oggetto nella sabbia è una conchiglia e non argento.

La cognizione corregge e rimuove il dubbio dando un tipo di evidenza conclusiva circa ciò che l’oggetto in questione è realmente. L’altro tipo di dubbio è specificamente il dubbio categorico, esemplificato da un filosofo che può interrogarsi o avere il dubbio sulle diverse categorie dell’essere, come l’esistenza di Dio, i modi di esistere della sostanza fisica, o la vera natura del tempo. Per chiarire questo secondo tipo di dubbio filosofico il metodo preferito dai Logici era un dibattito formale. Questi dibattiti offrivano uno spazio in cui i giudici presiedevano, stabilendo regole per argomenti e contro-argomenti, riconoscevano gli errori logici e le forme corrette di inferenza, e i due interlocutori nel cercare la verità usavano tutti i loro mezzi per stabilire la corretta posizione.

Il punto è che, secondo il pensiero tradizionale Brahminico, era possibile la certa e corretta conoscenza oggettiva del mondo; uno conosceva fin dal principio tutto ciò che cercava di sapere, da ciò che quel dato oggetto di cui si è all’oscuro è, ai tipi di causalità che operavano nel mondo, fino all’esistenza e al volere di Dio per gli esseri umani. Anche se è una attitudine naturale e un fondamentale aiuto agli esseri umani nella loro vita riflessiva e in quella di tutti i giorni, lo scetticismo può essere superato, purché uno si armi con i metodi di prova supportati dalla logica di senso comune. Per i Nyaya, anche se si può dubitare di tutto e di qualsiasi cosa, qualunque dubbio può essere risolto. Il Logico del Brahmanesimo, il Naiyayika, è un astuto e realistico filosofico ottimista, ma però è onesto.

I primi Buddisti non erano pressoché così sicuri sulla possibilità della conoscenza ultima del mondo. Infatti, il fondatore della tradizione, Siddhartha Gautama Shakyamuni (il “Buddha”, o il “Risvegliato”), notoriamente rifiutò di rispondere a tali ariose e ponderate domande metafisiche tipo “il mondo ha avuto un inizio o no?”, “esiste Dio?”, oppure, “l’anima perisce dopo la morte o no?”. Convinto che la conoscenza umana dovesse essere più idonea e più utilmente dedicata alla diagnosi e cura dei propri attaccamenti auto-distruttivi e ossessioni psicologiche degli esseri umani, il Buddha paragonò una persona convinta di poter trovare le risposte a tali domande ultime ad un soldato mortalmente ferito sul campo di battaglia che, pur essendo moribondo a causa della freccia avvelenata, chiedesse di conoscere tutto su chi aveva tirato la freccia, anziché venir portato da un dottore. La conoscenza ultima non può essere raggiunta, o almeno non può essere raggiunta prima che le follie e le fragilità della vita umana portino uno alla disperazione.

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A meno che gli esseri umani non ottengano una auto-riflessiva illuminazione con la meditazione, l’ignoranza avrà sempre il sopravvento sulla conoscenza nella loro vita, e questo è l’imbroglio che essi dovranno risolvere per alleviare la loro malcompresa sofferenza. I primi testi tradizionali mostrano come il Buddha sviluppasse un metodo per rifiutare di rispondere a tali domande che cercavano una metafisica conoscenza ultima, un metodo che arrivò ad essere nominato il rifiuto dei “quattro-errori” (chatuskoti). Quando, per esempio, gli viene chiesto se il mondo ha un inizio o no, un Buddista dovrebbe rispondere negando tutte le risposte logicamente alternative alla questione; “No, il mondo non ha un inizio, non manca di avere un inizio, non ha e non può avere un inizio, né non ha e né non può avere un inizio”. Questo rifiuto non dev’essere visto logicamente difettoso nel senso che esso viola la legge del mezzo esclusivo (A non può avere sia B che non-B), perché questo rifiuto è per principio più un rifiuto a rispondere che una contro-tesi, è più una decisione che una proposizione. Cioè, non si può obiettare a questo rifiuto dei “quattro-errori” semplicemente dicendo “il mondo ha un inizio, o non lo ha”, perché il Buddha sta raccomandando ai suoi seguaci che essi non dovrebbero prendere posizione sulla questione (questo, nella moderna logica proposizionale, è noto come illocuzione).

Questo rifiuto fu raccomandato perché l’interrogarsi su tali domande, dal Buddha fu considerato uno spreco di tempo prezioso, tempo che dovrebbe essere passato su un molto più importante e fattibile compito di autocontrollo psicologico. I primi Buddisti, diversamente dalle loro controparti filosofiche del Brahmanesimo, erano scettici. Ma nella loro propria visione, il loro scetticismo non rese pessimisti i Buddisti, al contrario, li rese più ottimisti, perchè anche se la mente umana non poteva rispondere alle questioni ultime, essa poteva però diagnosticare e curare le sue stesse dovute malattie fondamentali e sicuramente ciò era sufficiente.

Ma essendo passati da quattro a sei secoli tra la vita di Siddartha Gautama e Nagarjuna, sentendo il bisogno di spiegare la loro visione del mondo in un sempre germogliante ambiente filosofico del nord dell’India, i Buddisti trasformarono il loro scetticismo in teoria. La dottrina fondamentale Buddista, come l’insegnamento dell’impermanenza di tutte le cose, il rifiuto Buddista di una personale identità persistente e il rifiuto di ammettere naturali universali, come “l’essere-albero” “l’essere-rosso” e simili, erano sfide per i filosofi Brahmanici. Come si può, chiederebbero gli avversari Vedici, difendere l’idea che la causalità governi il mondo fenomenico mentre simultaneamente si sostiene che non c’è alcuna misurabile transizione temporale dalla causa verso l’effetto, come i Buddisti sembrano sostenere? E se i Buddisti suppongono proprio che nessun ego duraturo possa resistere e persistere durante le nostre esperienze di vita, come fanno allora tutte le mie esperienze e cognizioni a sembrar essere in mio possesso come un soggetto unitario? Perché, se tutte le cose possono essere ridotte all’universo Buddista di un flusso di atomi che cambiano eternamente, tutti gli oggetti sembrano stabili e integri circondandomi nel mio vivido ambiente? Di fronte a queste sfide, i monaci studiosi entusiasticamente entrarono nei dibattiti al fine di rendere comprensibile la visione Buddista del mondo.

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Come risultato di questi scambi, un rilevante numero di scuole di pensiero Buddiste si svilupparono, di cui le due più importanti furono il Sarvastivada (“Esistenza universale”) e il Sautrantika (“Vera Dottrina”). In vari modi, esse proposero teorie che rappresentavano l’efficacia causale, presente in tutte le dimensioni del tempo o istantaneamente, dell’identità personale essendo il prodotto psicologico di stati mentali complessi e interrelati e, più importante, di oggetti apparentemente stabili delle nostre esperienze di vita come se fossero meri composti di irriducibili sostanze elementari, con una loro natura “propria” (svabhava). Avendone necessità, queste scuole cercarono di completarsi, e così il Buddismo entrò nel mondo della filosofia, dei dibattiti, di tesi e verifiche, e della rappresentazione del mondo. Ed i monaci Buddisti diventarono non solo teorici, ma tra i più sofisticati teorici nel mondo intellettuale Indiano.

Il dibattito imperversò per secoli su come inserire Nagarjuna in questo contesto filosofico. Doveva poi esser visto come un tradizionale Buddista conservatore, che difendeva il consiglio stesso del Buddha per evitare la teoria? Doveva essere inteso come un Buddista del “Grande Veicolo”, che sistemava le dispute che nel Buddismo tradizionale non esistevano affatto, comprensibile solo per i Mahayanisti? Poteva egli essere perfino un radicale scettico, come sembrava che lo avessero preso i suo primi lettori Brahmanici, che nonostante il suo stesso vantarsi di filosofia espose posizioni che solo alcuni filosofi potevano apprezzare? Nagarjuna sembra essersi ritenuto un riformatore, soprattutto un riformatore Buddista, per essere sicuri, ma però sospettoso che la sua stessa beneamata tradizione religiosa fosse stata adescata, contro lo stesso consiglio del suo fondatore, in giochi di epistemologia e metafisica da antiche seppur ancor seducenti abitudini intellettuali Brahmaniche.

La teoria non era, come invece il pensiero dei Brahmani, uno stato di pratica e neppure era, come i Buddisti avevano iniziato a credere, la giustificazione della pratica. La teoria, nella visione di Nagarjuna, era il nemico di tutte le forme di pratica legittima, sociale, etica e religiosa. La teoria deve essere annullata tramite la dimostrazione che le sue metafisiche conclusioni Buddiste e i processi di ragionamento Brahmanico che portano verso di essa sono contraffatti, di nessun valore reale per la genuina ricerca umana. Ma, al fine di dimostrare un tale impegno, il dubbio deve essere metodico, proprio come fu metodica la filosofia che intendeva minarlo. Il metodo suggerito da Nagarjuna per portare ad annullare la teoria, curiosamente, non fu un metodo di sua invenzione. Egli sostenne come più pragmatico prendere in prestito metodi filosofici di ragionamento, in particolare quelli designati ad esporre argomenti erronei, per confutare le asserzioni e gli assunti dei suoi avversari filosofici.

E questa fu la strategia scelta poiché, se uno provvisoriamente accetta i concetti e le regole di verifica dell’avversario, il rifiuto della posizione dell’avversario sarà assai più convincente per lo stesso avversario che non se uno rifiuta il sistema avversario tout-court. Questa provvisoria e temporanea accettazione del metodo di prova e categorie dell’avversario è dimostrata dal modo in cui Nagarjuna impiega differenti approcci e stili di ragionamento a seconda se egli li scrive contro i Brahmini o i Buddisti. Tuttavia, egli in modo lieve e sottile adatta a ciascuno di essi il rispettivo sistema per seguire i suoi stessi scopi di ragionamento.

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Per i metafisici ed epistemiologi Brahminici, Nagarjuna accetta le varie forme di errori di logica sotto-lineati dai Logici e concorda di entrare nei loro stessi dibattiti. Ma egli coglie una variante nella forma dei dibattiti che, pur riconoscendoli come un vitale forma di discorso, non erano nient’altro che come quelli dei Nyaya. Il dibattito-tipo dei Nyaya, in stile ‘vada’ o “dibattito-verità”, mette due interlocutori uno contro l’altro nel portare opposte tesi (pratijna o paksa) nel dibattito, o su un certo argomento; ad esempio, un proponente Nyaya che difende la tesi che un autorevole testimonianza verbale è una forma accettabile di prova e un proponente Buddista che argomenta che quella testimonianza non è una verità che si auto-sostiene, ma può essere ridotta solo ad un tipo di inferenza deduttiva. Ognuna di queste opposte posizioni allora servirà come ipotesi di un argomento logico da comprovare o da confutare, e la persona che confuta l’argomento avversario e stabilisce il suo proprio punto di vista vince il dibattito. Tuttavia, c’erano una varieta di tipi di questi formati standard, dai Logici chiamati ‘vitanda’, o “dibattiti-distruttivi”. Nel ‘vitanda’, il fautore di una tesi cercava di stabilirla contro il suo avversario, il quale semplicemente si sforzava di confutare la visione del proponente, senza volerne stabilre o implicare una sua visione propria.

Se l’avversario della tesi offerta non riusciva a confutarla, egli perdeva; ma avrebbe perso anche se, confutando la tesi dell’avversario, egli cercava di asserire o implicare una contro-tesi. Ora, mentre i Brahmani Naiyayika consideravano questa forma una buona pratica di logica per i discepoli, essi non consideravano il ‘vitanda’ come una forma ideale di dibattito filosofico, poiché mentre probabilmente poteva esporre false tesi come false, certamente non poteva stabilire la verità, e quale buona ragione o analisi filosofica poteva essere se essi non avessero potuto cercare o scoprire la verità?
Da parte sua, Nagarjuna voleva solo poter entrare nei dibattiti filosofici come ‘vaitandika’, deciso a distruggere la posizione metafisica ed epistemologica dei proponenti Brahmanici, senza l’obbligo di una controproposta. Per far questo, Nagarjuna si munì di un’intera batteria di accettate risposte ai fallaci argomenti che i Logici avevano da tempo autorizzato, come il regresso all’infinito (anavastha), la circolarità (karanasya asiddhi) e il principio di vuoto (vihiyate vadah) per assalire le posizioni meta-fisiche ed epistemologiche che egli trovava problematiche.

Si dovrebbe notare che in seguito tutte le popolari e influenti scuole di pensiero del Buddismo Indiano, specificamente la scuola della Sapienza (Vijnanavada) e di Logica Buddista (Yogachara Sautranta) rifiutarono questa posizione puramente scettica di Nagarjuna e stabilirono una loro proprio positiva dottrina di coscienza e conoscenza, e fu solo con le successive e più sintetiche scuole di Buddismo del Tibet e dell’Asia Orientale che il noto approccio anti-metafisico e anti-conoscitivo di Nagarjuna ottenne una piena affinità. Non c’è dubbio, comunque, che tra i suoi avversari Vedici e i successivi commentatori Madhyamika, la strategia del “solo-confutare” di Nagarjuna fu altamente provocatoria e accese continue controversie. Ma, per sua stessa stima, impiegando solo il metodo Brahmanico contro la pratica Brahmanica, potè mostrare che la società e la religione Vedica, che egli riteneva essere l’autoritaria legittimazione della societa delle caste, usassero il mito di Dio, la rivelazione divina e l’anima come una sorta di razionalizzazione, e non le giustificate ragioni che essi presumibilmente volevano far essere.

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Contro il sostanzialismo Buddista, Nagarjuna resuscitò il diniego proprio del Buddha del ‘chatuskoti’ (i quattro errori), ma gli dette un più definitivo taglio logico del precedente impiego pratico datogli da Siddhartha Gautama. Fino a quel momento, nella tradizione Buddista Indiana, vi erano stati due noti scettici, di cui uno fu il Buddha stesso e l’altro un saggio del terzo secolo di nome Moggaliputta-tissa, che vinse diversi dibattiti-chiave contro alcuni gruppi settari tradizionali, su richiesta dell’imperatore Mauryano Ashoka, e che ne scrisse l’esito nel primo grande manuale di dibattiti della tradizione. Così, mentre il Buddha fornì il metodo dei “quattro-errori” per scoraggiare la difesa di posizioni tradizionali metafisiche e religiose, Moggaliputta-tissa costruì un tipo di dibattito che esaminava le varie dispute dottrinali del primitivo Buddismo che secondo lui rappresentavano posizioni che erano ugualmente non-valide dal punto di vista logico, e quindi non dovevano essere asserite (no ca vattabhe).

Forse ispirato da questo scettico approccio logicamente affilato, Nagarjuna raffinò il metodo “quattro errori” dal severo e pragmatico strumento ‘illocuzionario’ che vi era nel primitivo Buddismo in una macchina logica che dissolse le posizioni metafisiche Buddiste che avevano aumentato la loro influenza. La maggior scuola di Buddismo al tempo di Nagarjuna aveva accettato che le cose del mondo dovevano essere costituite da elementi metafisici fondamentali che avevavo una loro propria essenza fissa (svabhava), perché altrimenti non ci sarebbe stato modo di spiegare l’esistenza di persone, fenomeni naturali, o i processi causali e karmici che determinavano entrambi. Per esempio, se non si assume che le persone abbiano una natura fondamentale fissa, non si potrebbe dire che qualsiasi individuo particolare sia sottoposto alla sofferenza, e né si potrebbe dire che un qualsiasi particolare monaco che abbia perfezionato la sua disciplina e saggezza ottenga l’illuminazione e liberazione con rinascita nel nirvana.Cioè, senza una qualche nozione di essenza, pensavano i contemporanei di Nagarjuna, le asserzioni Buddiste non avevano senso, e la pratica Buddista non poteva far alcun bene, non poteva effettuare nessun vero cambiamento del carattere umano.

La risposta di Nagarjuna fu di “cacciare” questa metafisica posizione della pratica Buddista nel rotolo dei “quattro errori” a dimostrazione che il cambiamento Buddista c’era solo dopo, ed era realmente possibile solo se le persone non avevano un’essenza fissa. Perchè‚ se uno veramente esamina il cambiamento trova che, secondo il ‘chatuskoti’, il cambiamento non può produrre se-stesso, né può essere introdotto da un’influenza estrinseca, né può risultare da entrambi (se-stesso e un’influenza estrinseca), né da nessuna influenza del tutto. Tutte le logiche alternative di una data posizione sono esaminate e bocciate dal metodo dei “quattro errori”. Ci sono essenziali ragioni logiche perché tutte queste posizioni crollano. Prima di tutto esse sarebbero incoerenti (no papadyate) per assumere che ogni cosa con una natura o essenza fissa (svabhava) possano cambiare, poiché quel cambiamento violerebbe la sua natura fissa e così distruggerebbe la premessa originale. Inoltre, noi non abbiamo esperienza empirica di nessuna cosa che non cambi, e quindi non conosciamo mai (na vidyate) di essenze fisse nel mondo intorno a noi. Ancora una volta, il metodo del proponente è stato preso su in un modo ingegnoso per minare le sue conclusioni. Le regole del gioco filosofico sono state così rispettate, ma in questo caso non per cantare vittoria, ma allo scopo di mostrare a tutti i giocatori che il gioco alla lunga è stato giusto, semplicemente quel gioco che non ha avuto sostenibili conseguenze nella vita reale.

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E quindi, Nagarjuna ha giustamente meritato l’etichetta di scettico, proprio perché egli ha consentito lo smantellamento di posizioni teoriche ovunque le trovasse, e in una maniera metodicamente logica. Come gli scettici della tradizione classica Greca, i quali pensavano che il dubbio risolto su asserzioni dogmatiche, sia nella filosofia che nella vita sociale, poteva portare gli individui alla pace mentale, benchè tuttavia non è questo il caso, perché lo scetticismo di Nagarjuna non porta da nessuna parte. Al contrario, esso è la vera chiave per l’intuizione. Perchè‚ nel processo di smantellamento di tutte le posizioni metafisiche e epistemologiche, si è guidati verso la sola conclusione vitale per Nagarjuna, e cioè che tutte le cose, concetti e persone, sono prive di un’essenza fissa, e questa mancanza di una essenza fissa è proprio come e perché essi possono essere passibili di cambiamento, trasformazione ed evoluzione.

Il cambiamento c’è proprio perchè le persone vivono, muoiono, rinascono, soffrono e possono essere illuminate e liberate. E il cambiamento è possibile solo se le entità e il modo in cui noi le concettualizziamo sono entrambi vuoti o vacui (shunya) di una qualsiasi essenza eterna, fissa o immutabile. In effetti, Nagarjuna anche in quest’occasione riferisce il suo speciale uso dell’approccio dei “quattro-errori” come “il rifiutare e spiegare con il metodo di svuotare” (vigraheca vyakhyane krte sunyataya vadet) concetti e cose da un’essenza. E, proprio in tutto simile ai metodi del Buddismo, una volta che questo risvolto logico è servito allo scopo, anch’esso può essere scartato in cambio, per così dire, di quella saggezza che ha conferito. Pretendere la conoscenza porta alla rovina, mentre un genuino scetticismo può portare l’essere umano verso la vera conoscenza ultima. Solo il metodo dello scetticismo si deve conformare alle regole della conoscenza convenzionale, poiché, come Nagarjuna notoriamente afferma: “Senza dipendere dalle convenzioni, la verità ultima non può essere insegnata e se la verità ultima non è compresa, il nirvana non può essere raggiunto”.

Fonte : http://www.centronirvana.it




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