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Venerabile Ajahn Sumedho — La Coscienza

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La coscienza

del venerabile Ajahn Sumedho


L’ARGOMENTO DELLA COSCIENZA È DIVENTATO MOLTO IMPORTANTE

SUMEDHO.jpgin questi ultimi tempi. Tutti ne facciamo esperienza, vogliamo comprenderla e definirla. Secondo alcuni la coscienza si identifica con il pensiero o la memoria. Ho sentito dire da certi scienziati e psicologi che gli animali non hanno coscienza perché non pensano e non ricordano, il che è assurdo, a mio modo di vedere. Ma nel momento presente, proprio adesso, la coscienza è questo. Ci mettiamo semplicemente in ascolto… pura coscienza, prima di cominciare a pensare. Prendete nota: la coscienza è così. Sto ascoltando, sono in contatto con il momento presente, sono presente, sono qui e ora. Partendo dalla parola ‘coscienza’, si prende nota interiormente: “La coscienza è così”. È il luogo dove sorgono il pensiero, la sensazione e l’emozione. Quando siamo incoscienti non proviamo nulla e non pensiamo. La coscienza quindi è il campo che consente al pensiero, alla memoria, all’emozione e alla sensazione di apparire e scomparire.

La coscienza non è personale. Per renderla tale bisogna appropriarsene: “Io sono una persona cosciente”. Ma c’è solo consapevolezza, che è accedere all’attenzione nel presente, e in questo momento la coscienza è così. Allora si può notare il suono del silenzio, l’impressione di sostenere o poter riposare in uno stato naturale di coscienza che non è personale ed è privo di attaccamento. Notarlo è come introdursi o educarsi alla natura delle cose. Quando nasciamo, la coscienza inerente a questa forma separata entra in funzione. Il neonato è cosciente, ma non ha un concetto di sé in quanto maschio o femmina, o altro. Queste sono condizioni che acquisiscono dopo la nascita.

La nostra è una dimensione cosciente. Si può pensare in termini coscienza universale e di coscienza sensoriale, viññāna, come uno dei cinque khandha. Ma c’è anche questa coscienza priva di attaccamento, illimitata. In due luoghi del Tipitaka si parla di viññānam anidassanam anantam sabbato pabham [coscienza non manifesta, illimitata, ovunque risplendente], parole un po’ difficile per alludere a questo stato di coscienza naturale, a questa realtà. Io trovo molto utile notare chiaramente: “La coscienza è così”. Se comincio a pensarci, sentirò il bisogno di definirla: “C’è una coscienza immortale?”. Oppure cercherò di farne una dottrina metafisica, o di negarla dicendo che la coscienza è anicca, dukkha, anattā (impermanente, insoddisfacente, impersonale). Ma a noi non interessa proclamare una dottrina metafisica o limitarci a un’interpretazione che ci deriva dalla nostra tradizione, quanto piuttosto esplorarla in termini di esperienza. Luang Por Chah diceva “Pen paccattam”, è qualcosa che ognuno deve scoprire da sé. Quindi io ora sto esplorando, non voglio convincervi o convertirvi al mio punto di vista.

La coscienza è così. In questo momento indubbiamente c’è coscienza. C’è vigilanza e consapevolezza. Poi le condizioni sorgono e cessano. Se vi limitate a riposare nella coscienza con continuità, senza attaccamento, senza cercare di fare nulla, trovare qualcosa o diventare alcunché, ma semplicemente rilassandovi e avendo fiducia, sorge qualcosa. All’improvviso diverrete consapevoli di una sensazione fisica, un ricordo o un’emozione. Quel ricordo o quell’emozione emergono alla coscienza, poi cessano. La coscienza è una sorta di veicolo, è il modo in cui sono le cose.

La coscienza ha a che vedere con il cervello? La nostra tendenza è vederla come uno stato mentale che dipende dal cervello. Gli scienziati occidentali sostengono che la coscienza risiede nel cervello. Ma più la esplorate con sati-sampajañña e sati-paññā (presenza mentale e comprensione-saggezza) più vi accorgete che il cervello, il sistema nervoso, questo sistema psicofisico nel suo insieme, sorgono nella coscienza e sono permeati di coscienza. È per questo che possiamo essere consapevoli del corpo. Riflettiamo sulle quattro posizioni (stare seduti, in piedi, camminare e giacere). Quando siamo consapevoli dello star seduti così come le percepiamo adesso, non ci limitiamo a qualcosa che è nel cervello, ma il corpo è nella coscienza, siamo consapevoli dell’intero corpo mentre stiamo seduti.

Questa coscienza non è personale. Non è nella mia testa o nella vostra testa. Ciascuno di noi sta avendo una propria esperienza cosciente. Ma la coscienza è forse ciò che ci unisce? È la nostra ‘unità’? Mi limito a porre la domanda, ci sono vari modi di vedere la questione. Quando mettiamo da parte le differenze (io sono Ajahn Sumedho e sei il tal dei tali), quando mettiamo da parte identità e attaccamenti, la coscienza continua a funzionare. È pura, non ha un carattere personale, niente che la qualifichi come maschio o femmina. Non potete attribuirle una qualità, è così. Quando cominciamo a riconoscere che ciò che ci unisce, la nostra base comune, è la coscienza, vediamo che questa ha un carattere universale. Quando estendiamo la mettā (gentilezza amichevole) a un miliardo di cinesi nel loro paese, forse non è solo una bella idea sentimentale, forse è davvero efficace. Io non lo so, me lo sto chiedendo. Non intendo limitarmi a un punto di vista particolare che mi deriva dal mio condizionamento culturale, perché sotto molti aspetti è comunque inadeguato. Io non trovo che il mio condizionamento culturale sia molto affidabile.

A volte il theravāda sembra una forma di annichilazionismo, con questo suo insistere su ‘non c’è anima, non c’è Dio, non c’è sé’, questo attaccamento a un’opinione. O invece l’insegnamento del Buddha è qualcosa da investigare ed esplorare? Non ci interessa confermare l’opinione di qualcuno in merito al canone pāli, ma usare il canone pāli per esplorare la nostra esperienza. È un approccio completamente diverso. Continuando a investigare, la differenza fra pura coscienza e il momento in cui nasce il sé comincia a diventare ovvia. Niente di vago o fumoso (“Esiste un sé oppure no?”): è conoscere chiaramente.
Ora quindi nasce il sé. Comincio a pensare a me stesso, ai miei sentimenti, ai miei ricordi, al mio passato, alle mie paure, ai miei desideri, e con ciò nasce tutto il mondo che ruota attorno ad ‘Ajahn Sumedho’. Ora entra in orbita… le mie convinzioni, le mie impressioni e le mie opinioni. Potrei farmi risucchiare da quel mondo, dalla concezione di me stesso che sorge nella coscienza. Ma se invece lo riconosco, non prenderò più rifugio nell’essere una persona, una personalità, o nelle mie idee e punti di vista. Quindi posso lasciar andare, e con ciò il mondo di Ajahn Sumedho finisce. Ciò che resta dopo la fine del mondo è l’anidassana viññāna, questa coscienza originaria, non discriminante. Questa è ancora attiva. Non significa che Ajahn Sumedho muoia o che il mondo sparisca o che io cada in uno stato di incoscienza. A proposito di ‘fine del mondo’, ricordo una persona che si spaventò moltissimo e si mise a dire che i buddhisti meditano solo per vedere la fine del mondo, che odiano il mondo, vogliono distruggerlo e non vedono l’ora che finisca… sembrava davvero in preda al panico. Questo perché per noi il mondo è quello fisico, è questa pianeta coi suoi continenti e i suoi oceani, il polo nord e il polo sud. Ma nel Buddha-Dhamma il mondo è quello che creiamo nella coscienza. Ecco perché è possibile che le persone vivano in mondi diversi. Il mondo di Ajahn Sumedho non sarà identico a quello creato da voi; ma quel mondo sorge e cessa, e ciò che è consapevole del suo sorgere e cessare trascende il mondo. È lokuttara (trascendente) piuttosto che lokiya (mondano).

Al momento della nostra nascita fisica, in questa forma individuale c’è coscienza. Questo punto di coscienza entra in funzione e in seguito acquisiamo un senso di identità tramite la madre e il padre e il contesto culturale; acquisiamo una serie di valori, il senso di noi stessi come persone. Tutto ciò ci basa su avijjā: non sul Dhamma, ma su punti di vista, opinioni e preferenze inerenti alla cultura. Ecco perché le differenze culturali possono dar adito a infiniti problemi. Vivendo in una comunità multiculturale come la nostra è facile fraintenderci a vicenda, perché siamo condizionati a vedere noi stessi e il mondo in modi diversi. Quindi ricordate che il condizionamento culturale è un prodotto di avijjā, l’ignoranza del Dhamma. Ora noi stiamo infondendo nella coscienza paññā, che è una saggezza di tipo universale, non una filosofia culturalmente determinata.

Il Buddha-Dhamma, a ben vedere, non è un insegnamento culturale. Non riguarda la cultura o la civiltà indiana ma le leggi naturali della nostra esistenza, il sorgere e cessare dei fenomeni: riguarda il modo di essere delle cose. Gli insegnamenti del Dhamma mettono in luce il modo di essere delle cose, che non è legato alle limitazioni culturali. Quando parliamo di anicca, dukkha, anattā, questa non è filosofia o cultura indiana, sono cose di cui prendere atto. Non partiamo da un sistema di credenze culturalmente determinato. Il Buddha parla di risveglio, di fare attenzione, non di fissarsi su una posizione dottrinale. Ecco perché risulta comprensibile a molti, perché non si tratta di diventare indiani o convertirsi a una dottrina religiosa importata dall’India. Il Buddha si risvegliò alla realtà delle cose, alla legge naturale. Quindi, quando esploriamo la coscienza, insegnamenti come quello sui cinque khandha sono abili mezzi per studiare ed esaminare la nostra esperienza. Non è che dobbiamo ‘credere’ ai cinque khandha e all’inesistenza del sé, che non possiamo più credere in Dio perché i buddhisti credono che Dio non esiste. C’è anche la pensa così, che fa del proprio essere buddhista una posizione dottrinale. Per quanto mi riguarda, questo insegnamento non si basa su una dottrina, ma sull’incoraggiamento a risvegliarsi. Si parte dal qui e ora, dall’attenzione risvegliata, piuttosto che dal voler dimostrare che il Buddha è esistito veramente. Si potrebbe arrivare a dire che forse non c’è mai stato un buddha, che era soltanto un mito. Ma non avrebbe importanza, perché non c’è alcun bisogno di dimostrare che il Buddha Gotama sia vissuto veramente; il punto non è questo, vi pare? Non cerchiamo di provare eventi storici, ma di riconoscere che ciò che sperimentiamo un questo momento è così.

Quando ci concediamo di riposare nella consapevolezza cosciente, questo è uno stato naturale, non è creato. Non ricerchiamo una forma raffinata di condizionamento in cui si passa da condizioni più grossolane a condizioni sempre più raffinate, dove si prova una beatitudine o una tranquillità che derivano dal rendere più raffinata l’esperienza cosciente. Sarebbe una forma di dipendenza, dato che questo mondo, questa dimensione cosciente di cui facciamo parte, include il grossolano e il raffinato. Quella di cui facciamo esperienza non è solo una dimensione raffinata. In quanto esseri umani, in termini di vita planetaria, questo non è un devaloka o un brahmaloka (un regno celeste o un paradiso di livello superiore). La nostra è una dimensione grossolana dove passiamo per tutta una gamma di stati, dal grossolano al raffinato. Dobbiamo avere a che fare con le realtà di un corpo fisico, che è una condizione piuttosto grossolana. Nel regno dei deva non ci sono corpi fisici, tutti hanno un corpo eterico. Piacerebbe anche a noi, vero? Un corpo fatto di etere, invece di questa roba viscida che ci portiamo dentro, senza contare le ossa, il pus, il sangue, tutte le condizioni disgustose con cui dobbiamo convivere. Defecare ogni giorno… i devatā non devono fare cose del genere. A volte ci piace illuderci di essere devatā. Queste funzioni non ci piacciono, le teniamo nascoste. Non vogliamo che gli altri le vedano, perché le condizioni fisiche con cui viviamo sono molto grossolane. Ma la coscienza include tutte le gradazioni, dal grossolano all’estremamente raffinato.

Un’altra cosa da notare sono i sentimenti di compulsione. La sensazione di dover fare qualcosa, la tendenza irrefrenabile al dover fare, al dover ottenere quello che non si ha, al dover raggiungere qualcosa o dover eliminare le proprie impurità. Quando si ha fiducia nella propria ‘vera casa’ si può vedere in prospettiva il condizionamento emotivo. Proveniamo da società molto competitive e orientate al successo. Siamo fortemente programmati a sentire sempre di dover fare qualcosa, di dover raggiungere qualcosa. Ci manca sempre qualcosa, e sentiamo di dover scoprire cos’è. Dobbiamo averlo, o dobbiamo eliminare le nostre debolezze, mancanze e brutte abitudini. Notare che è solo una tendenza che sorge e cessa. È il mondo competitivo, il mondo dell’io.

È sempre possibile vederci alla luce delle nostre carenze in quanto persone. Sul piano personale ci sono sempre tanti difetti e inadeguatezze. Non esistono personalità perfette a quanto mi è dato di vedere. La personalità è scombinata. Per certi aspetti è passabile, per altri molto bizzarra. Una personalità in cui si possa prendere rifugio non esiste. Non riuscirete mai a diventare una personalità perfetta. Perciò, quando vi giudicate sul piano personale, sembrano esserci tanti problemi, inadeguatezze, difetti e debolezze. Forse vi paragonate a una persona ideale, una personalità altruistica e superiore alla media. Ciò che è consapevole della personalità non è personale. Si può essere consapevole della personalità in quanto oggetto mentale. Le condizioni che compongono la personalità sorgono e cessano. A volte capita di sentirsi all’improvviso molto insicuri o comportarsi in modo assai puerile, perché sono sorte le condizioni per quel tipo di personalità.

Ricordo quando i miei genitori erano ancora vivi andai a stare da loro per circa tre settimane, perché si erano ammalati gravemente. All’epoca ero abate del monastero di Amaravati, un Ajahn Sumedho cinquantacinquenne che torna a vivere sotto lo stesso tetto con mamma e papà. Provai tutto una serie di emozioni infantili, perché le condizioni erano tali da favorirle. I genitori ci danno la vita. Madre e padre evocano ricordi e associazioni dall’infanzia in poi. Quindi molte delle condizioni che si creano in famiglia tendono a farci tornare bambini, anche nel caso di un monaco buddhista di cinquantacinque anni, abate di un monastero! Per mio padre e mia madre era naturalissimo tornare a vedermi come un bambino. Razionalmente riconoscevano che ero un uomo di mezz’età (all’epoca ero ancora tale), ma a volte si comportavano lo stesso come se fossi stato piccolo. Allora provavo un senso di ribellione, una specie di risentimento adolescenziale per l’essere trattato da bambino. Perciò, non sorprendetevi se vi capita di provare certi stati emotivi. Nel corso della vita, invecchiando, il kamma matura e di conseguenza emerge alla coscienza un certo tipo di condizioni. Non disperate se a cinquant’anni scoprite di sentirvi molto infantili. Limitatevi a esserne consapevoli così com’è. È quello che è. Poiché sono presenti le condizioni per quella particolare emozione, questa emerge alla coscienza. Il vostro rifugio è nella consapevolezza, piuttosto che nel cercare di diventare l’uomo o la donna ideali… maturi, responsabili, capaci, arrivati, ‘normali’, e via dicendo: tutti questi sono ideali.

Qui nessuno mi considera un bambino. In questo posto il più anziano sono io! Forse mi vedete come una figura paterna, perché un uomo anziano come me evoca l’autorità. Sono un simbolo di autorità, un patriarca, una figura paterna, un modello maschile, per qualcuno di voi un nonno. È interessante contemplare questo stato, quando si presentano le condizioni. Razionalmente potete dire: “Non è mica mio padre!”, ma al livello emotivo potreste sentire diversamente, potreste trattarmi come un padre spinti dall’abitudine emotiva. Quando si presentano le condizioni per quella figura maschile autorevole vi sentite in un certo modo, vi sentite così. Non c’è niente di male, limitatevi a notare che è quello che è. Fidatevi del vostro rifugio nella consapevolezza, non dell’idea che non dovreste proiettare figure paterne su di me, che non dovreste sentirvi esautorati da un’autorità maschile, e via dicendo. Se vi sentite esautorati da me, prendetene atto come di una condizione che è sorta, invece di farmene una colpa o incolpare voi stessi, perché così non fate che ricadere nel vecchio mondo creato da voi, il vostro mondo personale a cui credete come se fosse realtà.

A me capitava di arrabbiarmi moltissimo di fronte alla prepotenza femminile. Quando una donna, chiunque fosse, mostrava il minimo accenno di prepotenza, mi infuriavo. Mi sono chiesto perché un semplice tono di voce mi desse tanto sui nervi, perché un atteggiamento prepotente mi mandasse in collera a quel modo. Ho capito che era un po’ come quando da bambino cercavo di averla vinta su mia madre. Se il passato non è stato risolto completamente, quando si presentano le condizioni emergerà quella rabbia. Esserne consapevoli aiuta a risolverla. Comprendendola e vedendola per quella che è la si risolve, la si lascia andare, di modo che non si resta fermi alle stesse vecchie reazioni.
Dunque il nostro rifugio è la consapevolezza, più che prendere rifugio nel nostro sforzo di mantenere condizioni raffinate all’interno della coscienza, che è un’impresa impossibile. Certo, coltivando le abilità necessarie si può imparare ad aumentare il grado di sensibilità all’esperienza di ciò che è raffinato, ma inevitabilmente si dovrà permettere a ciò che è grossolano di manifestarsi, di diventare parte dell’esperienza cosciente. Riposare in questa consapevolezza cosciente è stato paragonato a un ‘tornare a casa’, la nostra ‘vera casa’. È un luogo dove si può riposare, come a casa propria. Legato all’idea di casa c’è anche un senso di appartenenza, vero? Lì non siamo più stranieri, o estranei. Cominciamo a riconoscere quel luogo dal sollievo che proviamo, il sollievo di essere finalmente a casa, di non essere più uno straniero, un vagabondo un terre desolate. Poi può sorgere il mondo di Ajahn Sumedho e allora si smette di essere a casa, perché Ajahn Sumedho è un estraneo, uno straniero! Non è mai tutto a suo agio in nessuno posto. Sono ancora un americano? Sono inglese o thailandese? Dov’è casa mia, in quanto Ajahn Sumedho? Non so più nemmeno che nazionalità sono, o quale paese mi sia più familiare. Qui mi sento più a casa che in America, perché è un posto dove ho vissuto a lungo. In Thailandia mi sento a casa perché è il paradiso dei monaci buddhisti e si ricevono tante attenzioni, ma c’è sempre il visto da rinnovare e si rimane sempre Phra Farang (‘Venerabile Straniere’). Qui in Inghilterra, malgrado la mia lunga permanenza, agli occhi della gente resto per l più un americano. Quando torno in America non so cosa sono: “Non sembri più un americano, hai uno strano accento, non capiamo da dove vieni!” Questo è il mondo che viene creato. Quando scivola via, quello che resta è la nostra vera casa.


El venerabile Ajahn Sumedho
– © Ass. Santacittarama, 2007. Tutti i diritti sono riservati.
– Traduzione di Letizia Baglioni
– Estratto del libro “Consapevolezza intuitiva”, su gentile concessione dell’Editore Ubaldini.
SANTACITTARAMA MONASTERO BUDDHISTA




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