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Il Dhamma va ad Occidente – del venerabile Ajahn Chah

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Il Dhamma va ad Occidente

del venerabile Ajahn Chah

© Ass. Santacittarama, 2003. Tutti i diritti sono riservati.

Traduzione di Sara Bellettato.

(Seattle, USA, 1979: conversazione con un ex-monaco)

DOMANDA:

Un mio amico andò a praticare con un maestro Zen, e gli chiese: “Quando il Buddha sedeva sotto l’albero della Bodhi, che faceva?”. Il maestro Zen rispose: “Praticava lo zazen!” e il mio amico: “Non ci credo!”. Il maestro Zen gli chiese: “Che vuol dire, non ci credi?” e il mio amico rispose: “Ho posto la stessa domanda a Goenka, e lui mi ha detto ‘Quando il Buddha sedeva sotto l’albero della Bodhi, stava praticando la vipassana’ e così ognuno dice che il Buddha stava praticando qualunque cosa egli stesso stesso pratichi”.

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AJAHN CHAH:

Quando il Buddha sedeva all’aperto, sedeva sotto l’albero della Bodhi. Non è così? Quando sedeva sotto qualche altro albero, sedeva sotto l’albero della Bodhi. Non c’è niente di sbagliato in quelle spiegazioni. “Bodhi” significa il Buddha stesso, colui che sa. Va benissimo dire “Sedere sotto l’albero della Bodhi”, ma ci sono molti uccelli che stanno su quell’albero, e molte persone sono sedute là vicino. Ma sono tutti molto lontani da una simile conoscenza, da tale verità. Sì, possiamo dire “Sedere sotto l’albero della Bodhi”; le scimmie giocano fra i rami, e le persone vi si siedono vicino, ma questo non significa che abbiano una comprensione profonda. Quelli che comprendono più in profondità si rendono conto che il vero significato dell’ “albero della Bodhi” è il Dhamma assoluto.

In questo senso, è certamente un bene per noi provare a sedere vicino all’albero della Bodhi. Così potremo diventare dei Buddha. Ma non c’è bisogno di discutere con gli altri su questo argomento. Quando qualcuno dice che il Buddha stava praticando una certa cosa sotto l’albero della Bodhi e un altro lo contesta, noi non dobbiamo farci coinvolgere. Dovremmo considerare tutto questo dal punto di vista del significato ultimo, cioè capire la verità. Vi è anche l’idea convenzionale di “Albero della Bodhi”, che è ciò di cui parla la maggior parte della gente, ma quando ci sono due specie di albero della Bodhi, le persone finiscono per litigare e avere le discussioni più accese, e infine, non c’è alcun albero della Bodhi.

Si parla del paramathadhamma, il livello della verità ultima. In questo caso, possiamo anche provare a stare sotto l’albero della Bodhi. E’ una cosa buona, così saremo dei Buddha. Non è qualcosa su cui litigare. Quando qualcuno dice che il Buddha sotto l’albero della Bodhi stava praticando un certo tipo di meditazione, e qualcun altro dice che non è esatto, non abbiamo bisogno di farci coinvolgere. Noi aspiriamo al paramathadhamma, che significa dimorare nella completa consapevolezza. Questa verità ultima pervade tutto. Non vi preoccupate se il Buddha sedeva sotto l’albero della Bodhi o stava facendo altre pratiche in altre posture. È solo l’analisi intellettuale che le persone hanno sviluppato. Uno ha una propria visione della questione, e un altro ne ha una idea differente, non c’è bisogno di farsi coinvolgere in discussioni su questo argomento.

Dove è che il Buddha è entrato nel Nibbana? Nibbana significa “estinzione senza alcun residuo”. Finito. L’essere estinti deriva dalla conoscenza, conoscenza delle cose così come sono veramente. Questo è il modo in cui le cose giungono a compimento, e questo è il paramathadhamma. Ci sono delle spiegazioni diverse secondo i livelli della convenzione e della liberazione, che sono entrambi vere, ma le loro verità sono diverse. Ad esempio, diciamo che tu sei una persona. Ma il Buddha direbbe : “Non è così. Non c’è nulla che si possa chiamare ‘persona’”. Così dobbiamo riassumere i diversi modi di parlare e spiegare in termini di convenzione e liberazione .

Possiamo spiegarlo così: prima eri un bambino, e ora sei cresciuto. Sei una persona nuova, o sei la stessa persona di prima? Se sei lo stesso di prima, come è potuto accadere che tu sia diventato adulto? Se sei una nuova persona, da dove sei venuto? Ma parlare di una persona vecchia o di una persona nuova, non tocca veramente il nocciolo della questione. Questo problema illustra chiaramente le limitazioni del linguaggio e della comprensione convenzionali. Se c’è qualcosa che è detto ‘grande’, ci sarà anche qualcosa di ‘piccolo’. Se c’è il ‘piccolo’, ci sarà anche il ‘grande’. Noi possiamo parlare di piccolo e grande, giovane e vecchio, ma in realtà non c’è niente che sia veramente tale, in qualsivoglia senso assoluto. Non possiamo dire veramente che qualcuno o qualcosa è grande. Il saggio non accetta queste definizioni e non le riconosce come reali, ma quando le persone ordinarie sentono una tale affermazione, che il ‘grande’ e il ‘piccolo’ non sono propriamente veri, sono confuse, perché sono attaccate ai concetti di ‘grande’ e ‘piccolo’.

Piantate un alberello e guardatelo crescere. Dopo un anno è alto un metro. Dopo un altro anno è due metri. E’ lo stesso albero? O è un albero diverso? Se è lo stesso albero, come è cresciuto? E se è diverso, come è venuto dall’albero più piccolo che c’era prima? Dalla prospettiva di una persona che è illuminata nel Dhamma e vede correttamente, non c’è nessun albero nuovo o vecchio, né piccolo, né grande. Uno guarda l’albero, e pensa che sia alto. Un altro lo guarda, e pensa che non sia poi così alto. Ma non c’è alcun ‘alto’ che esista di per sé. Non si può dire che qualcuno è grande o piccolo, che qualcuno è cresciuto e qualcun altro è giovane. Le cose finiscono qui, e anche i problemi allo stesso tempo finiscono. Non abbiamo bisogno di restare invischiati a queste distinzioni convenzionali, e non avremo dubbi sulla pratica.

Ho sentito di persone che venerano le loro divinità sacrificando animali. Uccidono anatre, polli e mucche per offrirli ai loro dei, pensando che questo faccia loro piacere. Questa è errata comprensione. Pensano di stare accumulando meriti, invece è esattamente l’opposto, stanno in effetti accumulando una gran quantità di cattivo kamma. Uno che esamini realmente la questione, non la penserà più così. Ve ne siete accorti, ci avete fatto caso? Ho paura che la gente in Thailandia stia diventando così. Non sta applicando la vera investigazione…

D: Cioè la vimamsa?

AJAHN CHAH: Significa capire cause e risultati.

D: E poi gli insegnamenti parlano di chanda, la soddisfazione; viriya, lo sforzo, l’applicazione di energia; citta… (i quattro iddhipada, le “basi per l’ottenimento”).

AJAHN CHAH: Quando c’è soddisfazione, è associata con qualcosa che è corretto? Lo sforzo è corretto? Vimamsa deve essere presente con questi altri fattori.

D: Citta e vimamsa sono diverse?

AJAHN CHAH: Vimamsa è investigazione. Significa abilità, o saggezza. È un fattore mentale. Possiamo dire che chanda è mente, viriya è mente, citta è mente, vimamsa è mente. Sono tutti aspetti della mente, e possono tutti essere riassunti come “mente”, ma qui in questo caso sono distinti con lo scopo di evidenziare questi diversi fattori mentali. Se c’è soddisfazione, potremmo non sapere se sia giusta o meno. Se c’è sforzo, non sappiamo se sia giusto o no. E ciò che chiamiamo “mente”, è la vera mente? Ci deve essere vimamsa per distinguere tutte queste cose. Investigando gli altri fattori con saggio discernimento, la nostra pratica gradualmente migliora, e noi possiamo comprendere il Dhamma.

Ma il Dhamma di per sé non porta grandi benefici, se non pratichiamo la meditazione. Non capiremo veramente di che cosa si tratta. Questi fattori sono sempre presenti nella mente di un vero praticante. Quindi, anche se dovesse andare fuori strada, sarà consapevole di ciò e sarà in grado di correggersi. In questo modo, il sentiero della sua pratica è senza interruzioni.
Le persone potrebbero guardarvi e pensare che il vostro stile di vita, il vostro interesse nel Dhamma non hanno senso. Altri potrebbero dire che se volete praticare il Dhamma dovreste prendere i voti. Farsi o non farsi monaci non è il punto focale. È il modo in cui praticate. Così come è stato detto, ognuno dovrebbe essere il testimone di sé stesso. Non prendete gli altri come testimoni. Questo significa imparare ad aver fiducia in voi stessi. Allora non c’è nessuna perdita. La gente può persino pensare che voi siate pazzi, ma non fateci caso. Essi non sanno nulla del Dhamma.

Le parole degli altri non possono misurare la vostra pratica. E voi non comprenderete il Dhamma grazie a quello che vi dicono gli altri. Voglio dire, il vero Dhamma. Gli insegnamenti che gli altri vi possono dare sono per mostrarvi il cammino, ma non costituiscono una vera conoscenza. Quando le persone incontrano il Dhamma, lo realizzano proprio dentro di sé. A riguardo il Buddha ha detto: “Il Tathagata è solamente uno che indica la via”. Quando qualcuno prende i voti, io dico: “La nostra responsabilità finisce qui: gli acariya che dovevano recitare hanno recitato i loro canti. Io ti ho dato i precetti e i voti per l’ordinazione. Il nostro lavoro finisce qui. Il resto sta a te, pratica correttamente.”

Gli insegnamenti possono essere dei più profondi, ma coloro che ascoltano potrebbero non capire. Ma non vi preoccupate. Non siate perplessi sulla profondità o sulla mancanza di profondità. Semplicemente praticate con tutto il cuore, e potrete arrivare alla vera comprensione. Ciò vi condurrà proprio nello stesso luogo di cui parlano. Non basatevi sulle percezioni della gente ordinaria. Avete sentito la storia dei ciechi e dell’elefante? È un buon esempio.
Supponete che ci sia un elefante, e un gruppo di ciechi cerca di descriverlo. Uno ne tocca una zampa, e dice che l’elefante è come una colonna. Un altro ne tocca un orecchio, e dice che assomiglia a un ventaglio. Un altro ancora tocca la coda, e dice “no, non è un ventaglio, assomiglia piuttosto a una scopa”. Un altro ne tocca la spalla, e dice che è un’altra cosa ancora, del tutto diversa da quello che dicono gli altri.

È così, non c’è soluzione, non c’è fine. Ogni persona cieca tocca una parte dell’elefante, e si fa un’idea completamente diversa di cosa sia. Ma si tratta sempre dello stesso elefante. E nella pratica, è proprio così. Con poca comprensione ed esperienza, avrete delle idee limitate. Potete passare da un maestro all’altro, cercando spiegazioni ed istruzioni, cercando di capire se i loro insegnamenti sono corretti o scorretti e come questi insegnamenti siano reciprocamente compatibili. Alcuni monaci sono continuamente in viaggio da un maestro all’altro, con la loro ciotola e l’ombrello. Cercano di giudicare e misurare, così quando si siedono per meditare, sono costantemente confusi su ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. “Questo maestro ha detto così, ma l’altro maestro ha detto colà…. Uno insegna in un modo, ma i metodi dell’altro sono diversi. Non sembrano accordarsi…” Questo può portare una gran quantità di dubbi.

Potreste sentir dire che alcuni maestri sono veramente validi, e così andreste a ricevere gli insegnamenti di maestri thailandesi, maestri Zen, e altri. Mi sembra che abbiate probabilmente avuto già abbastanza insegnamenti, ma la tendenza è quella di voler sentire sempre di più, di confrontare, per finire di nuovo immersi nei dubbi. E ogni maestro che viene dopo, accrescerà ancora di più la vostra confusione. C’è una storia di un ricercatore errante dei tempi del Buddha, che era in questa situazione. Andava da un maestro all’altro, ascoltando le diverse spiegazioni e imparando i loro metodi. Cercava di imparare la meditazione, ma questo non faceva che accrescere la sua perplessità. I suoi viaggi alla fine lo portarono al maestro Gotama, e descrisse al Buddha la sua situazione.

Il Buddha gli disse: “Il tuo comportamento non farà cessare dubbi e confusione. Ora lascia andare il passato, qualunque cosa tu abbia o non abbia fatto, che fosse giusta o sbagliata, liberatene adesso. Il futuro non è ancora arrivato. Non speculare in nessun modo su di esso, chiedendoti cosa succederà. Lascia andare tutte queste idee disturbanti. Sono solamente idee. Lascia andare il passato e il futuro, guarda al presente, e conoscerai il Dhamma. Potresti conoscere le parole dei vari maestri, ma ancora non conosci la tua stessa mente. Il momento presente è vuoto, osserva solamente il sorgere e il cessare dei sankhara. Osserva come siano impermanenti, insoddisfacenti, e privi di un sé. Osserva che sono effettivamente così. E allora non ti preoccuperai del passato o del futuro. Capirai chiaramente che il passato è passato e il futuro non è ancora arrivato. Contemplando il presente, ti accorgerai che il presente è il risultato del passato, e i risultati delle azioni passate si vedono nel presente.

Il futuro non è ancora arrivato, qualunque cosa avverrà nel futuro, sorgerà e svanirà nel futuro, non c’è alcun motivo di preoccuparsene ora, poiché non è ancora accaduta. Quindi, contempla il presente. Il presente è la causa del futuro. Se vuoi un buon futuro, fai il bene nel presente, aumentando la tua consapevolezza di ciò che fai nel presente. Il futuro è il risultato di questo. Il passato è la causa, e il futuro è il risultato del presente.

Conoscendo il presente, si conosce il passato e il futuro. Allora possiamo lasciare andare il passato e il futuro, sapendo che sono concentrati nel momento presente.”

Comprendendo ciò, il ricercatore errante si convinse a praticare come lo consigliava il Buddha, riconducendo ogni cosa all’origine. Vedendo sempre più chiaramente, raggiunse molti tipi di conoscenza, vedendo l’ordine naturale delle cose con la sua stessa saggezza. I suoi dubbi ebbero fine. Lasciò da parte il passato e il futuro, e ogni cosa divenne evidente nel presente. Questo era eko dhammo, il Dhamma unico. Non era più necessario per lui trasportare la sua ciotola per le elemosine attraverso montagne e foreste, alla ricerca della comprensione. Se andava da qualche parte, ci andava naturalmente, non spinto dal desiderio di qualcosa. Se stava fermo, stava in modo naturale, non spinto dal desiderio.

Praticando in quel modo, divenne libero dal desiderio. Non c’era nulla da aggiungere o da togliere alla sua pratica. Dimorava nella pace, senza ansia per il passato o per il futuro. Questa era la via che aveva insegnato il Buddha.
Ma questa non è solo una storia accaduta molto tempo fa. Anche noi oggi possiamo realizzare tutto questo, se pratichiamo correttamente. Possiamo conoscere il passato e il futuro, perché sono racchiusi proprio qui, nel momento presente. Se osserviamo il passato, non saremo in grado di capire, perché non è là che risiede la verità. Se osserviamo il futuro, non saremo in grado di capire. La verità esiste qui, nel presente.

Il Buddha ha detto: “Io sono giunto da solo all’illuminazione, con il miei stessi sforzi, senza alcun maestro”. Avete mai letto questa storia? Un adepto di un’altra setta gli chiese: “Chi è il tuo maestro?”. E il Buddha rispose: “Io non ho alcun maestro, ho raggiunto da solo l’illuminazione”. Ma quell’uomo scosse la testa e se ne andò. Pensò che il Buddha stesse inventando una storia, e non era assolutamente interessato a ciò che diceva. Quel viandante pensava che non fosse possibile ottenere alcunché senza un maestro o una guida.
Succede così: voi studiate con un maestro spirituale, e lui vi dice di lasciare andare avidità e rabbia. Vi spiega che sono dannose, e che avete bisogno di liberarvene. Così voi praticate, e alla fine ci riuscite. Ma l’esservi liberati da avidità e rabbia non è accaduto solo perché il maestro ve lo ha spiegato; voi stessi avete dovuto effettivamente impegnarvi e metterlo in pratica.

Attraverso la pratica, voi imparate qualcosa per voi stessi. Vedete l’avidità che è nella vostra mente, e la lasciate andare. Vedete la rabbia nella vostra mente, e la lasciate andare. Il maestro non vi libera al vostro posto da esse, lui vi dice di liberarvene, ma voi non ve ne liberate solo perché lui ve ne parla. Voi stessi praticate e realizzate tutto questo. Voi stessi capite queste cose, per voi stessi.

È come se il Buddha vi prendesse e vi portasse all’inizio del sentiero, e vi dicesse: “Questo è il cammino. Percorrilo.” Ma lui non vi aiuta a camminare. Dovete farlo da soli. Quando percorrete il sentiero, e praticate il Dhamma, voi incontrate il vero Dhamma, che è al di là di qualunque cosa vi possa venir spiegata da chicchessia. Quindi, ognuno si illumina con i propri sforzi, comprendendo passato, futuro e presente, comprendendo cause e risultati. Così si pone fine al dubbio.

Parliamo di lasciar andare, di sviluppare, rinunciare e coltivare. Tuttavia quando si realizza il frutto della pratica, non c’è niente altro da aggiungere né togliere. Il Buddha ha insegnato che questo è il punto a cui vogliamo arrivare, ma le persone non si vogliono fermare a qui. I loro dubbi ed i loro attaccamenti li tengono in movimento, li tengono confusi e impediscono loro di fermarsi. E così, quando uno è arrivato, mentre gli altri sono da un’altra parte, questi ultimi non saranno in grado di comprendere minimamente quello che dice. Potranno capire le sue parole a livello intellettuale, ma questa non è vera comprensione o conoscenza della verità. Di solito, quando parliamo della pratica, parliamo di entrare e lasciare, accrescere (le cose positive) e rimuovere (le cose negative). Ma il risultato finale è che si finisce di avere a che fare con tutte queste cose. C’è il sekha puggala, la persona che ha bisogno di esercitarsi in questo, e c’è l’asekha puggala, la persona che non ha più bisogno di esercitarsi in nulla. E stiamo parlando della mente: quando la mente ha raggiunto questo livello (di piena realizzazione), con c’è più nulla da praticare. Perché? Perché quella persona non ha più bisogno di alcun metodo convenzionale di insegnamento e pratica. Si parla di qualcuno che si è liberato degli impedimenti.

La persona sekha deve esercitarsi, praticando i vari gradini del sentiero, dall’inizio, fino al livello più alto. Quando ha portato a termine questo percorso, viene chiamata asekha, che significa che non ha più bisogno di esercizio, perché è tutto finito. Le cose in cui esercitarsi sono finite. I dubbi sono finiti. Non ci sono qualità da sviluppare. Non ci sono impedimenti da rimuovere. Queste persone vivono nella pace. Qualunque cosa, il bene e il male non li toccano, essi sono stabili, indipendentemente da ciò che capita loro.Stiamo parlando della mente vuota. Adesso sarete veramente confusi!

Non comprendete assolutamente questa cosa. “Se la mia mente è vuota, come posso camminare?”. Proprio perché la mente è vuota. “Se la mente è vuota, come posso mangiare? Avrò desiderio di mangiare, se la mia mente è vuota?”. Non c’è molto beneficio a parlare del vuoto in questi termini, quando la gente non ha praticato nel modo giusto. Non sarò in grado di capire.

Quelli che usano queste parole, hanno cercato di darci delle indicazioni che possano guidarci verso la comprensione della verità. Ad esempio, questi sankhara che siamo andati accumulando e che abbiamo portato con noi dal momento della nostra nascita fino ad ora – il Buddha ha detto che in verità non sono il nostro sé, non sono nostri, non ci appartengono. Perché ha detto una cosa del genere? Non c’è altro modo di esprimere la verità. Ha parlato così per le persone che hanno discernimento, cosicché possano raggiungere la saggezza. Questa è una cosa che dobbiamo contemplare con attenzione.

Alcuni sentiranno le parole: “Niente è mio” e avranno l’idea di buttare via tutti i loro averi. Con una comprensione solo superficiale, le persone discuteranno del significato di queste parole, e su come metterle in pratica. “Questo non è il mio sé” non significa che dovete mettere fine alla vostra vita o buttare via le vostre cose. Significa che dovete rinunciare all’attaccamento. C’è il livello della realtà convenzionale e il livello della realtà ultima. Supposizione e liberazione. Al livello convenzionale, ci sono il signor A, il signor B il signor M, il signor N e così via. Usiamo queste convenzioni per convenienza, per comunicare nella realtà quotidiana. Il Buddha non ha insegnato che non dovremmo usare queste cose, ma che non ci dovremmo attaccare a esse. Dovremmo renderci conto che sono vuote.

È difficile parlarne.

Dobbiamo far affidamento sulla pratica e comprendere attraverso la pratica. Se volete avere la conoscenza e la comprensione con lo studio, o chiedendo agli altri, non comprenderete realmente la verità. È qualcosa che dovete vedere e conoscere da voi stessi, attraverso la pratica. Rivolgetevi all’interno, per conoscere dentro di voi. Non rivolgetevi sempre all’esterno. Ma quando si parla di pratica, le persone diventano polemiche. Le loro menti sono pronte alla discussione, perché hanno imparato questo o quell’altro approccio alla pratica, e hanno un attaccamento a ciò che hanno imparato. Non hanno compreso la verità attraverso la pratica.

Avete notato i thailandesi che abbiamo incontrato l’altro giorno? Hanno fatto delle domande irrilevanti, come: “Perché mangiate dalla vostra ciotola delle elemosine?”. Ho visto come erano lontani dal Dhamma. Hanno avuto una istruzione moderna, così io non potevo dire molto. Ma ho lasciato il monaco americano a parlare con loro. Forse desideravano ascoltarlo. I thailandesi di oggi non sono molto interessati al Dhamma, e non lo capiscono. Perché dico questo? Se qualcuno non ha studiato una cosa, è ignorante di quella cosa. Loro hanno studiato altro, ma sono ignoranti del Dhamma. Io ammetto di essere ignorante delle cose che loro hanno imparato. Il monaco occidentale ha studiato il Dhamma, così può dire loro qualcosa in proposito.

Tra i thailandesi, oggi, c’è sempre meno interesse nelle ordinazioni, nello studio, nella pratica. Non so perché. Forse perché sono impegnati con il lavoro, perché il paese si sta sviluppando materialmente, o per qualunque altra ragione ci possa essere. Non lo so.

Nel passato, quando si prendevano i voti, si rimaneva almeno per qualche anno, quattro o cinque ritiri delle piogge. Adesso, restano una settimana o due. Alcuni addirittura prendono i voti al mattino e si smonacano la sera stessa. Così vanno le cose al giorno d’oggi. La gente dice cose come quelle che un amico mi ha detto: “Se tutti prendessero i voti come vorresti tu, per almeno qualche ritiro delle piogge, non ci sarebbe progresso nel mondo. Le famiglie non crescerebbero. Nessuno costruirebbe nulla.”

Io gli ho risposto: “Tu pensi come un lombrico. Un lombrico vive nella terra, e mangia la terra. Mangia e mangia, comincia a preoccuparsi che non ci sarà più sporcizia da mangiare. È circondato dalla sporcizia, e la terra è tutto intorno a lui, ma lui si preoccupa di rimanere senza”.

Questo è pensare da lombrichi. La gente si preoccupa del progresso del mondo, che il mondo finisca. Questa è una visione da lombrichi. Non sono lombrichi, ma ragionano come i lombrichi. Questa è mancata comprensione del regno animale, è vera ignoranza.

C’è una storia che racconto spesso, di una tartaruga e di un serpente. La foresta era in fiamme, e entrambi cercavano di scappare. La tartaruga si stava incamminando, quando vide strisciare il serpente accanto a lei, e si impietosì. Per quale motivo? Il serpente non aveva zampe. La tartaruga pensò che non potesse scappare dal fuoco, e lo voleva aiutare. Ma con l’avvicinarsi dell’incendio, il serpente scappò velocemente, mentre la tartaruga, anche con le sue quattro zampe, non ce la fece e morì.

Quella era l’ignoranza della tartaruga. Pensava che se si hanno le zampe ci si può muovere. E se non si hanno le zampe, non si può andare da nessuna parte. E così, era preoccupata che il serpente potesse morire perché non aveva le zampe. Ma il serpente non era per niente preoccupato, poiché sapeva che avrebbe potuto fuggire il pericolo facilmente.

Questo è un modo di parlare alle persone con le idee confuse. Proveranno pena per voi, se non siete come loro e non avete le loro idee e conoscenze. Ma chi è ignorante? Io stesso sono ignorante, a mio modo. Ci sono cose di cui non conosco nulla, e riguardo ad esse sono ignorante.

Trovarsi in situazioni diverse, può essere fonte di tranquillità. Io però non avevo capito quanto insensato fossi e quanto mi sbagliassi. Ogni volta che qualcosa disturbava la mia mente, cercavo di correre lontano, di scappare. Ciò che facevo, invece, era fuggire la pace. Stavo continuamente scappando lontano dalla pace. Non volevo vedere questa o conoscere quell’altra, non volevo pensare a certe cose o avere esperienza di altre. Non mi rendevo conto che questi erano ostacoli. Pensavo solo di aver bisogno di ritirarmi e di stare lontano dalle persone e dalle situazioni, cosicché non avrei avuto contatto con niente che mi disturbasse e non avrei udito alcun discorso spiacevole. Più riuscivo ad allontanarmi, meglio era.

Dopo molti anni, fui costretto, dall’ordine naturale delle cose, a cambiare atteggiamento. Essendo monaco da un po’ di tempo, finii con l’avere sempre più discepoli e sempre più persone che mi cercavano. La vita e la pratica nella foresta attraevano sempre più persone, e così, mentre il numero di discepoli cresceva, io fui costretto a cominciare ad affrontare le cose. Non potevo più scappare. Le mie orecchie dovevano udire, i miei occhi vedere. E fu allora, come Ajahn, che cominciai ad avere più conoscenza, che mi portò molta saggezza, e molta capacità di lasciar andare. Accadevano moltissime cose di tutti i tipi, e io imparai a non attaccarmi, imparai a lasciar andare continuamente, e questo mi rese molto più abile di prima.

Quando sopraggiungeva la sofferenza, andava tutto bene. Non aggiungevo altra sofferenza cercando di scappare. Prima, nella mia meditazione, desideravo solo la tranquillità. Pensavo che l’ambiente esterno fosse utile solo quando mi aiutasse a raggiungere la tranquillità. Non immaginavo che avere la retta visione fosse la causa della tranquillità.

Ho detto spesso che ci sono due tipi di tranquillità. I saggi le hanno divise in pace attraverso la saggezza e pace attraverso samatha. Nella pace attraverso samatha, l’occhio deve stare lontano dalle visioni, l’orecchio dai suoni, il naso dagli odori, e così via. Così, senza sentire, senza sapere, ecc, uno può diventare tranquillo. Questo tipo di pace può andare bene, a suo modo. Ha qualche valore? Si, ma non è il massimo. Ha vita breve. Non ha un fondamento affidabile. Quando i sensi incontrano oggetti spiacevoli, questo tipo di pace cambia, perché non vuole che cose spiacevoli siano presenti. E così la mente è continuamente in lotta con questi oggetti, e non nasce alcuna saggezza, perché la persona sente sempre che non è in pace, a causa di quei fattori esterni.

D’altra parte, se decidete di non scappare, ma di guardare direttamente le cose, vi rendete conto che la mancanza di tranquillità non è dovuta a oggetti o situazioni esterne ma accade a causa della cattiva comprensione. Insegno spesso questo ai miei discepoli. Dico loro: “Quando siete seriamente intenzionati a trovare la tranquillità nella vostra meditazione, potete cercare il posto più tranquillo e remoto, dove non verrete a contatto con il benché minimo suono o visione, dove non c’è assolutamente nulla che vi disturbi. In quei luoghi, la mente si calma perché non c’è nulla a provocarla. E quando avete questa esperienza, esaminate la mente per vedere quanta forza ha quando uscite da quel luogo, e ricominciate ad avere esperienza del contatto sensoriale, osservate come diventate compiaciuti o dispiaciuti, provate appagamento o repulsione, e come la mente si turba. E capirete che questo tipo di tranquillità non è reale.

Qualunque cosa accada nel vostro campo di esperienza, è semplicemente ciò che è. Quando qualcosa da piacere, decidiamo che è buona, e quando qualcosa da dispiacere, diciamo che non è buona. Questa è solo la nostra mente discriminante, che da dei significati agli oggetti esterni. Comprendendo ciò, avremo una base per investigare queste cose e vederle così come sono veramente. Quando c’è tranquillità nella meditazione, non c’è bisogno di pensare molto. Questa sensibilità ha una certa capacità di conoscere, che ha origine nella mente tranquilla. Questo non è pensare, è dhammavicaya, il fattore di investigare il Dhamma.

Questo genere di tranquillità non viene disturbato dall’esperienza e dal contatto sensoriale. E sorge la domanda: se questa è tranquillità, perché esistono ancora dei processi mentali che continuano? C’è qualcosa che accade dentro la tranquillità, non è qualcosa che accade nel modo comune, reattivo, in cui rendiamo qualcosa più grande di quanto non sia in realtà. Quando qualcosa accade nella tranquillità, la mente la riconosce con estrema chiarezza. Nasce la saggezza, e la mente può contemplare ancora più chiaramente. Noi vediamo esattamente come accadono le cose; quando conosciamo la loro natura, la tranquillità pervade tutto. Quando gli occhi vedono forme, e le orecchie odono suoni, noi riconosciamo immagini e suoni per quello che sono. In questa seconda forma di tranquillità, quando gli occhi vedono le forme, la mente è in pace. Quando le orecchie odono i suoni, la mente è in pace, non è turbata. Di qualunque cosa noi facciamo esperienza, la mente non ne viene scossa.

Da dove ci arriva questo genere di tranquillità? Viene dall’altro tipo di tranquillità, dalla samatha ignorante. La prima causa l’insorgere della seconda. È insegnato che la saggezza viene dalla tranquillità. La conoscenza viene dalla non conoscenza; la mente conosce da quello stato di non conoscenza, dall’imparare a investigare quello stato. Ci saranno sia tranquillità che saggezza. E allora, ovunque noi siamo e qualunque cosa stiamo facendo, vediamo la realtà delle cose. Sappiamo che il sorgere e il cessare dell’esperienza nella mente è proprio così. Non c’è niente altro da fare, niente da correggere o da risolvere. Non c’è ulteriore ragionamento, non c’è alcun posto in cui andare, nessuna via di fuga. Possiamo solo scappare attraverso la saggezza, conoscendo le cose così come sono, e passare oltre.

Nel passato, quando fondai Wat Pah Pong e la gente cominciava a venire per visitarmi, alcuni discepoli dicevano: “Luang Por sta sempre a fare amicizia con la gente. Non è più un buon posto per restare”. Ma non era che io andassi a cercare la gente. Avevamo fondato un monastero, e le persone venivano per fare onore al nostro stile di vita. Non potevo negare ciò che dicevano, ma in realtà io stesso stavo guadagnando molto in saggezza, e venivo a conoscenza di un sacco di cose. Ma i discepoli non ne avevano idea. Si limitavano a guardarmi e a pensare che la mia pratica stesse degenerando. C’erano molto andirivieni e disturbo. Non avevo modo di convincerli del contrario, ma col passar del tempo, superai molti ostacoli, e infine giunsi alla conclusione che la vera tranquillità nasce dalla retta visione. Se non la abbiamo, allora non farà differenza il luogo in cui siamo, non saremo in pace e la saggezza non sorgerà.

La gente prova a praticare qui (in America). Io non critico nessuno, ma da ciò che posso vedere, sila non è molto ben sviluppata. Beh, questa è una convenzione. Potete cominciare prima a praticare samadhi. È come camminare e trovarsi davanti un bastone. Uno lo può raccogliere prendendolo da entrambe le estremità, un altro lo può prendere da una sola, ma è sempre lo stesso pezzo di legno, e prendendolo da entrambe le parti, lo si può spostare. Quando c’è un po’ di calma che deriva dalla pratica di samadhi, allora la mente sarà in grado di vedere le cosa con chiarezza e acquistare saggezza, e vedere il danno che deriva da alcuni comportamenti. La persona sarà cauta e contenuta. Potete spostare il tronco prendendolo dalle estremità, ma la cosa importante è che siate fermamente determinati nella pratica. Se cominciate con sila, questo contenimento vi porterà la calma. Se cominciate con samadhi, porterà saggezza. Quando c’è saggezza, aiuta a sviluppare maggiormente samadhi. E samadhi porta a perfezionare sila. Sono sinonimi, e si sviluppano insieme. In conclusione, il risultato finale è che sono due aspetti della stessa cosa, sono indivisibili.

Non possiamo distinguere samadhi e classificarla separatamente. Non possiamo incasellare la saggezza come qualcosa di separato. Inizialmente le distinguiamo. Ci sono i due livelli: convenzionale e della liberazione. Al livello della liberazione, non ci attacchiamo al bene e al male. Usando convenzioni, distinguiamo buono e cattivo, e aspetti diversi della pratica. È necessario farlo, ma non è ancora il livello supremo. Se comprendiamo l’uso delle convenzioni, possiamo comprendere la liberazione. Quindi possiamo capire i modi in cui termini diversi vengono usati per condurre le persone alla stessa cosa.
E così, in quei giorni imparai a ad avere a che fare con le persone, e con ogni tipo di situazione. Venendo a contatto con tutte quelle cose, dovetti rendere stabile la mia mente. Basandomi sulla saggezza, fui in grado di vedere chiaramente, senza venire turbato da ciò con cui venivo a contatto.

Qualunque cosa gli altri dicessero, non mi toccava, poiché le mie convinzioni erano ferme. Quelli che diventeranno insegnanti, avranno bisogno di essere fermamente convinti di quello che sanno, senza venire turbati da ciò che la gente dirà. Richiede una buona dose di saggezza, e qualunque saggezza uno abbia, può comunque aumentare. Mettiamo da parte tutte le nostre vecchie convinzioni così come ci si rivelano, e continuiamo a ripulire la mente.

Dovete veramente rendere la mente stabile. Spesso non c’è agio per la mente né per il corpo. Capita quando si vive in comunità; è qualcosa di naturale. A volte dobbiamo affrontare la malattia, ad esempio. Io ne ho avuto molta esperienza. Come vi comportereste con questo? Tutti desiderano vivere comodamente, avere buon cibo e riposare sufficientemente. Ma non possiamo sempre avere tutto questo. Non possiamo semplicemente indulgere nei nostri desideri. Ma possiamo creare qualche beneficio in questo mondo, con i nostri sforzi virtuosi. Possiamo creare benessere per noi stessi e per gli altri, in questa vita e nella prossima. Questi sono i risultati del rendere pacifica la mente.

Venire qui (in Inghilterra e negli Stati Uniti) è la stessa cosa. È solo una breve visita, ma cercherò di aiutare come posso, e di offrire insegnamenti e guida. Ci sono ajahn e studenti qui, e cercherò di aiutarli. Anche se non ci sono ancora dei monaci che siano venuti a vivere qui, questa è una cosa positiva. Questa visita può preparare le persone ad avere dei monaci qui. Se venissero troppo presto, sarebbe difficile. Poco a poco le persone possono familiarizzare con la pratica e con le abitudini del bhikkhusangha. Quindi, la sasana potrà fiorire anche qui. Quindi, per il momento, dovete prendervi cura della vostra mente e renderla retta.

Source : www.watnongpahpong.org




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