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Il Venerabile Lokanatha (1897-1966)

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LOKANATHA

Salvatore Cioffi (1897- 1966)

Doloroso è continuare a rinascere. Ma ora ti ho trovato, costruttore, e non ricostruirai mai più questa mia dimora. La trave di colmo è spezzata, le travi sono rotte. Ogni desiderio è estinto e la mente riposa nel nirvana.

Il Dhammapada (versi 153-154)

Durante i miei cinque anni passati in Asia a contatto con la gente, il diverso modo di vivere, le molteplici religioni e fedi di quei lontani ed affascinanti paesi, avevo sentito parlare di un connazionale che scelse il Buddhismo come cammino spirituale e che, col passar del tempo, diventò un “santo” di quella fede: il Venerabile Lokanatha alias Salvatore Cioffi.

Dopo qualche non facile ricerca ho potuto ricostruire la vita ed il percorso di fede di questo personaggio che, dalla natia Napoli e dall’ambiente americano dove era cresciuto, approdò al mondo asiatico e al Buddhismo. Le informazioni che ho raccolto, grazie anche all’aiuto del pronipote Michael Cioffi, non sono del tutto complete, specie per quanto riguarda il cammino personale e spirituale: alcuni dei suoi scritti in lingua birmana non sono ancora stati tradotti nelle lingue occidentali, altri sono andati perduti durante un’alluvione. Inoltre, molte delle persone che lo conobbero non sono più tra noi. Ciò nonostante sono lieto di poter presentare ai lettori de “l’Ideale” la figura di questo interessante protagonista di un viaggio all’interno dell’uomo nell’ottica del Buddhismo Theravada.

Salvatore Cioffi – Il Venerabile Lokanatha

lokanatha.gifSalvatore Cioffi nacque a Napoli nel 1897 da una numerosa famiglia che, date le difficoltà economiche esistenti a quell’epoca nel nostro paese, come tanti connazionali decise di emigrare altrove alla ricerca di migliori condizioni di vita. Salvatore giunse quindi a New York nel 1900, a soli tre anni.

Della sua gioventù abbiamo solo scarne informazioni. Sappiamo che visse e studiò a Brooklyn, tradizionale luogo di concentrazione di buona parte degli immigrati italiani e, diplomatosi, entrò alla New York University. Ottenuto il “Bachelor degree” in scienze nel 1922, collaborò con il Cooper Institute e intraprese ricerche nel campo medico-biologico presso la Rockefeller University.

Non abbiamo un suo diario spirituale che ci possa far capire quale particolare aspetto della vita l’abbia avvicinato al Buddhismo. Possiamo solo immaginare che nei suoi studi e nelle sue ricerche sia stato particolarmente colpito dalla sofferenza umana. Come visto all’inizio, il Buddhismo si è specificatamente concentrato su quest’aspetto e sulla possibilità di vincere desiderio e bramosia, cause del dolore, sia fisico sia morale. Nella sua ricerca in questo campo un libro della biblioteca universitaria attirò la sua attenzione: una traduzione in inglese del Dhammapada, una raccolta in versi del pensiero del Buddha, il libro più amato dal canone Buddista. Il pronipote, Michael Cioffi, in una sua recente corrispondenza, mi ha confidato che dai pochi scritti di Salvatore in suo possesso si può rintracciare qualche elemento sul perché questa lettura lo colpì così fortemente: aveva una mente scientifica ed era alla ricerca di una comprensione della realtà scevra da dogmi o rivelazioni. Il Buddhismo, con il suo percorso, lo poteva stimolare in un campo dove la sperimentazione anche intima era possibile senza dover accettare verità trascendenti.

La razionalità e la sofferenza spirituale più che la semplice curiosità, lo spinse nel 1925 a conoscere più da vicino il mondo buddista. Così abbandò la vita civile, con grande disappunto della famiglia che non condivideva le sue scelte: uno dei suoi fratelli era diventato gesuita e, ovviamente, la delusione sua e di tutto il gruppo familiare, di solide tradizione cattoliche, fu enorme. Salvatore seguì tuttavia la sua strada: si recò in alcuni paesi dell’Asia e, giunto in quella che allora era la Birmania, entrò in un monastero per avvicinarsi di più a quella scintilla che l’aveva colpito. Fu lì che iniziò il suo percorso sulla strada del “risveglio”.

Divenuto monaco buddista, nel suo indirizzo Theravada, decise di aprirsi al mondo per far conoscere la via che aveva intrapreso e le risposte che stava cercando e che in parte aveva trovato. Con l’ordinazione monacale Salvatore assunse il nome di Lokanatha. Nella lingua pali (derivata dal sanscrito) “Loka” significa mondo mentre “natha” significa protettore, rifugio, o … salvatore: sicuramente scelto perché simile al suo nome originale.

Un lungo viaggio in Europa, Medio Oriente e Asia lo mise di fronte ad una realtà: il Buddhismo non era molto conosciuto e lui stesso aveva bisogno di meditare ancora, aveva cioè bisogno di raccoglimento mentale per cogliere la vera natura delle cose in una visione profonda. Scelse quindi una vita ascetica tra monasteri, montagne, caverne e luoghi di silenzio. Mancando la sua testimonianza diretta possiamo solo immaginare che fu proprio qui che approfondì la ricerca del significato di dolore, di desiderio, di lento ed inesorabile fluire dell’impermanenza della realtà (aniccā), qui rivisitò criticamente tutto il percorso intrapreso e il significato intimo del “risveglio”. Il suo distacco dalla vita tradizionale lo portò a raggiungere un controllo sempre più completo del proprio corpo: insensibile alla fame e al freddo, dormiva seduto, si concentrava nel mondo spirituale, ricercava nella profondità della coscienza la vita oltre la materia.

Spiritualmente più forte, dal 1933 fino allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, compì diversi viaggi per insegnare la via della ricerca e del risveglio interiore.

Durante la guerra venne internato dalle autorità britanniche prima in Birmania e poi, con l’arrivo dei giapponesi, in un campo di prigionia vicino Patna, nello stato indiano di Bihar sulla sponda meridionale del fiume Gange, proprio dove Siddhārtha Gautama divenne il Buddha. Secondo la versione ufficiale, la prigionia era causata dalla sua nazionalità italiana, paese belligerante contro le forze alleate. Dal momento però che sì, era nato italiano, ma che era americano per naturalizzazione ed estrazione, certamente la vera causa risiedeva nella sua forte amicizia con il birmano U Wisara, patriota anticolonialista che morì in carcere durante uno sciopero della fame. In ogni caso non ci risulta ci fu alcuna protesta da parte del governo americano che, anch’esso seguendo simili criteri, rinchiuse intere famiglie di cittadini americani di origine italiana o giapponese, donne e bambini compresi, nei campi di concentramento di Lake, Minidoka, Manzanar (California), etc. etc.

Terminata la guerra Salvatore, oramai a tutti noto come il Venerabile Lokanatha, tornò a Mandalay, in Birmania, dove fondò l’ ”Opera Buddista all’Estero” con la quale si propose di diffondere il Buddhismo. In questo suo intento manifestò tutta la sua tempra instancabile: scrisse diversi lavori, fra cui il libro “Girdling the Globe with Truth” (Avvolgendo il mondo con la verità) e “The Truth in Light” (La verità nella luce) che ottennero immediato successo; intraprese una serie di viaggi missionari che lo portano in giro per l’Asia, per l’America Settentrionale e per l’Europa; promosse una raccolta fondi per finanziare ulteriori missioni e promuovere la pace che, nonostante la guerra fosse finita, sembrava (e ahimé sembra ancor oggi) una parola vuota di significati reali.

I suoi viaggi portarono momenti di grande soddisfazione, con generose offerte di denaro che aiutarono la sua opera missionaria, ed episodi di profonda tristezza quali il rifiuto da parte delle autorità cattoliche ad un suo incontro con il Papa: l’ecumenismo, nel rispetto delle reciproche differenze, in quegli anni era ancora molto lontano.

Gli anni cinquanta vedono Lokanatha sempre più impegnato nella sua missione: è praticamente un leader indiscusso del Buddhismo mondiale con monaci da dirigere e monasteri e pagode da gestire. Alternando momenti di studio e meditazione a momenti dedicati all’ espansione del Buddhismo, si recò a Ceylon (l’attuale Sri Lanka) dove, nel maggio 1950, partecipò ai lavori della Prima Conferenza del “World Fellowship of Buddhists”, il primo Congresso Mondiale degli Amici del Buddhismo. Di ritorno a Mandalay, nel 1951 innanzò per la prima volta la prima Bandiera del Mondo Buddista.

Il Venerabile Lokanatha trascorse gli anni successivi fra preghiere e meditazioni, viaggi nei vari paesi asiatici, conferenze e congressi: nel 1954 si recò a Rangoon (l’attuale Yangon) per un’altra conferenza del Congresso Mondiale degli Amici del Buddhismo; nel 1956 viaggiò nel subcontinente indiano; ovunque si impegnò nella diffusione del Buddhismo come ricerca personale e come strumento di pace. In questo periodo rinsaldò la sua amicizia, nata qualche anno prima, con alcune grandi personalità, poi divenute anch’esse buddiste, quali il Dr. Bhimrao Ramji Ambedkar, uno dei padri della Costituzione Indiana che combatteva il sistema delle caste; e il Dr. R. L. Soni pensatore e scrittore, autore di un commentario sui “The Maha Mangala Sutta” [I Grandi Discorsi di Benedizione] e di “The only way to deliverance” [La sola via per la liberazione].

Negli anni 60 il Venerabile Lokanatha fu molto occupato nella programmazione di un viaggio che lo doveva portare praticamente in tutte le capitali del mondo, fra il 1963 e il 1965. Subentrarono però alcune difficoltà, fra cui anche una serie di forti emicranie e il suo viaggio venne rimandato. Col passare del tempo i suoi dolori di testa aumentarono e gli venne diagnosticato un cancro al cervello che lo portò alla tomba il 25 maggio 1966.
Le ceneri del Venerabile Lokanatha, pianto da amici e discepoli, furono portate a Maymyo (una cittadina a pochi chilometri da Madalay) e da qui nel monastero di Shwezigon dove sono ancora oggi oggetto di visite e venerazione.

La letteratura, i tratti biografici esistenti a tutt’oggi e le sue opere, ancora in parte sconosciute al pubblico occidentale, non ci permettono di valutare appieno la strada che Salvatore-Lokanatha decise di intraprendere. Possiamo solo formulare qualche ipotesi tentando di immedesimarci nel suo personaggio. L’esperienza del dolore è sicuramente stata causa e motivazione fondamentale della sua ricerca interiore. La meditazione e il non facile percorso per uscire dall’intimo egoistico “io”, hanno dato a lui (e a tutti quelli che si incamminano per la stessa strada) la possibilità di superare la prigionia del corpo. Prova di questo suo impegno furono sia la sua rinuncia al cibo, ai piaceri del corpo e al riposo (almeno come viene inteso in occidente), sia la sua grande concentrazione meditativa.

Molte sono le vie che conducono alla cima della montagna e molti sono i fiori che si incontrano lungo il percorso. Seguendo gli insegnamenti del Buddha, nella ricerca di trasmettere la ricchezza delle sue esperienze, nessuna forzatura esisteva nel suo proselitismo. La sua persona, in risposta ad un richiamo intimo ed urgente, ha arricchito i fianchi della montagna sia che la sua anima sia ancora in cammino, sia che abbia avuto la forza di raggiungere la pienezza del risveglio.

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