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Buddhismo zen e pratica scientifica – 3. La pratica del Dharma come religione

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Buddhismo zen e pratica scientifica

Un approccio sostenibile al dialogo fra religione e scienza

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3. La pratica del Dharma come religione

Luigi Cerruti

Università di Torino

e-mail: luigi.cerruti@unito.it

Essendo nato in una civiltà abbastanza tollerante il Buddha poté predicare per più di quaranta anni, fin quando si sfasciò il corpo, tenuto insieme da fasce e legacci come un vecchio carro (la metafora è sua). Le mole del Canone attribuito alla sua parola risultò già immensa, ma la predicazione autentica del Dharma non si è interrotta con la sua morte. Dopo di lui, in tutte le genti fra cui si è diffuso il Dharma sono sorti Maestri in grado di indicare nuove linee di pensiero, nuove tecniche di meditazione, nuove pratiche di liberazione. Il praticante zen ritiene che gli scritti di Dōgen (XIII secolo), abbiano lo stesso carattere di sacralità delle parole del Risvegliato. Il carattere cumulativo e contaminato del Canone Buddhista è simile a quello del nostro patrimonio scientifico.

Sul carattere cumulativo della conoscenza scientifica vi è largo accordo. Anche dopo un cambiamento di Gestalt (o di ‘paradigma’) buona parte dei dati accumulati precedentemente è ancora utile, qualsiasi sia la loro re-interpretazione. Nel caso del Dharma gli aspetti cumulativi si ritrovano a livello di dottrina e di pratica. Con il trascorrere dei secoli il Canone ha accolto, o la pratica ha messo in evidenza, sempre nuovi testi. Più palpabile ancora, più proficuo per tutti i Buddhisti è stato il cumularsi di tecniche di meditazione sempre più varie, adatte ai tempi e ai popoli. Uno dei guasti, più o meno ‘preterintenzionali’, perpetuati dalle varie denominazioni Buddhiste è di privilegiare nelle proprie istituzioni, o nella quotidianità, un numero molto limitato di pratiche di meditazione – fino al punto di tradire le intenzioni del fondatore, come nel caso dell’insegnamento di Dōgen (vide infra).

L’aspetto contaminato del Dharma non è altro che la testimonianza millenaria della sua volontà/capacità di adattamento alle civiltà via via incontrate, da quella indo-greca del Gandhara a quelle dell’immenso ‘oriente’ (sud-est asiatico, Tibet, Manciuria, Cina, Giappone). In Cina il Dharma proveniente dall’Occidente fu profondamente influenzato dal Taoismo, e dalla contaminazione nacquero nuovi germogli, le ‘scuole’ huayan 華嚴 e chan 禅, e divennero testi fondamentali dei sutra che fino ad allora erano stati tradotti dal sanscrito solo perché facenti parte del Canone. La nascita di quelle nuove scuole fu il risultato di una grande impresa di ermeneutica sociale (vide infra, sezione 5). Quanto alla contaminazione della scienza, non basta considerare gli aspetti istituzionali, così radicalmente influenzati dalle ideologie dominanti in tempi diversi e nelle varie Nazioni. La contaminazione è genetica. Dopo la scoperta di Thomson i ricercatori del Cavendish Laboratory brindavano con questa frase: “Che l’elettrone non possa servire a nulla!”. Il brindisi era stupido (molto stupido), tuttavia rivela molto di più che un infelice snobbismo: fra laboratorio e officina vi è una contiguità che è ideologica, prima ancora che fattuale. La scienza ‘pura’ è una boutade accademica.

Venendo ora ad un altro tema del seminario, scelgo un ‘pezzo facile’ per il Dharma. L’insegnamento del Buddha è sostanzialmente privo di una cosmogonia. Esistono in effetti racconti delle origini, fra cui il più importante è il XXVII sutta dei Discorsi Lunghi. Nel racconto il Buddha parla dell’inizio del mondo come lo conosciamo (per un atto di golosità: tanha cassa okkami, la sete entrò in lui), ma dal punto di vista dell’argomentazione i passi che descrivono la cosmogonia sono soltanto un inciso rispetto alle due parti, iniziale e finale, che costituiscono un attacco deciso al sistema delle caste. Più in generale, l’assenza di un cosmogonia Buddhista si accompagna ad una seconda assenza: quella di un Essere personale, creatore, onnipotente. Con questa duplice assenza viene a mancare tutta un’area di possibile raccordo o scontro fra Buddhismo e scienza. Tuttavia, specialmente nella parte del Canone di impronta mahayana, vi è una forte connotazione cosmologica, i cui tratti principali sono lo spazio senza limiti, l’infinità dei mondi, il tempo senza inizio e senza fine, l’interazione fra tutti gli enti e tutti gli esseri. Non si tratta però di una cosmologia semplicemente o puramente poetica, perché ha una robusta base epistemologica (vide infra, sezione 5).

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