Nell’anno in cui cominciai a praticare la meditazione vipassana partecipai, mi pare, a quattro o cinque corsi intensivi di dieci giorni, ragion per cui dovetti chiedere molti giorni di ferie. Sebbene non ne parlassi coi colleghi, la cosa non passò inosservata e il motivo per cui sparivo si riseppe. Una volta, al mio rientro al giornale dopo un corso, un collega mi chiese a bruciapelo: «Ma tu sei diventato buddista?». Stavo per rispondergli che no, che cosa ti viene in mente, quando mi bloccai e, dopo aver riflettuto un istante risposi: «Forse sì».
Riferisco quest’aneddoto personale perché mi pare esemplificativo del fatto che si può praticare la meditazione senza senza dover abbandonare la religione d’appartenenza. Nessuno dei miei maestri di meditazione pretese mai prima o dopo alcuna professione di fede. Bisogna però avvertire che, se si applica il metodo, è possibile cominciare a vedere le cose da altri punti di vista, e ciò può comportare un distacco da molte convinzioni cui si può essere aggrappati. Non parlo solo delle convinzioni religiose, che sono tutto sommato marginali nella pratica, ma anche e soprattutto quelle su noi stessi, sugli altri, sui rapporti, sulla vita, sul mondo. In quel periodo, nei discorsi con gli amici, descrivevo il corso di vipassana nella tradizione di Sayagyi U Ba Khin «I dieci giorni che sconvolgono il mondo», parafrasando il titolo del film di Sergej Bondarcuk che era uscito proprio allora.
Dal punto di vista filosofico il buddismo sembra inconciliabile con una fede monoteistica. Ma in pratica un cristiano, un ebreo o un musulmano possono praticare la meditazione vipassana perché la pratica non confligge con la fede. Gli strumenti con cui si lavora sono il respiro e le sensazioni del corpo e ciò non comporta assolutamente l’adozione di un altro credo religioso né l’abiura di alcun articolo di fede.
Come forse ho già riferito in passato, anch’io ho insegnato la meditazione di consapevolezza a molte persone senza mai menzionare Buddha o il Buddismo. Erano, in maggioranza, malati che venivano a Milano per sottoporsi a cure specialistiche non disponibili nel loro luogo d’origine, oppure parenti che li accompagnavano. Gravitavano, per lo più attorno all’Istituto dei Tumori di Milano. Tra loro c’erano persone appartenenti a ogni fede e credo religioso: cattolici, ebrei, protestanti, ortodossi, ma anche musulmani provenienti dall’Egitto o dal Vicino Oriente, induisti, buddisti e moltissimi atei. Bene, per sei anni tenni due sedute settimanali di due ore insegnando la pratica della consapevolezza a queste persone senza che nessuno mai venisse nemmeno sfiorato dall’idea che stesse facendo qualcosa che potesse in qualche modo urtare la sua sensibiltà religiosa. Soltanto da qualche buddista mi sentii dire cose tipo: «Ah, sì. Questo lo insegnano anche al mio Paese».
Da un punto di vista più strettamente dottrinario, sappiamo tutti che il Nobile Ottuplice Sentiero è composto di Otto elementi:
1) Retta parola;
2) Retta azione;
3) Retti mezzi di sostentamento;
4) Retta consapevolezza;
5) Retto sforzo
6) Retta concentrazione;
7) Retta convinzione
8) Retta aspirazione.
I primi tre “raggi” compongono il sila, la retta condotta, e per un laico si riducono all’osservanza dei cinque precetti. Gli elementi dal 4 al 6 formano il samadhi. Questi sono comuni a quasi tutti i sistemi religiosi, perciò si possono praticare tranquillamente senza cambiare la propria fede.
Gli ultimi due sono quelli specificamente buddisti e sono indispensabili alla pratica avanzata dell’insight. Anche se la retta convinzione (cioè che tutte le cose siano impermanenti, insoddisfacenti e vuote di consistenza soggettiva) non richiede l’adozione di alcun credo metafisico, tuttavia può confliggere con alcuni dogmi come l’immortalità dell’anima ecc. La retta aspirazione all’estinzione del dolore esistenziale, siccome comporta l’abbandono della sete di sensazioni e quindi della sete di esistenza, può confliggere con le credenze sulla santità della vita, il progetto intelligente ecc.. In pratica, però, moltissimi cattolici frequentano i corsi di vipassana senza percepire alcun motivo di conflitto palese. Per non parlare degli ebrei, molti dei quali insegnano addirittura la meditazione di consapevolezza o la meditazione zen senza alcun problema di compatibilità con la loro fede d’origine; vedi Ayya Khema, Bernie Glassman, Sharon Salzberg, Joseph Goldstein, solo per menzionare i primi che mi vengono in mente.
Flavio Pelliconi
Fonte : Tratto da un messaggio di “Risveglio”, gruppo di discussione e condivisione sulla pratica della consapevolezza, in data “Mer 31 Gen 2007”