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In cucina con i bonzi

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I bonzi giapponesi tramandano da secoli una cucina della serenità, la cucina di chi non recide il suo legame religioso con la natura. La preparazione esige pazienza ed amore, il consumo dei pasti richiede sentimento di riconoscenza e raccoglimento. Incompatibile con il chiasso, il disordine e la fretta, con tutto ciò che è vistoso, volgare e artificiale, la gastronomia buddista può fornire – in questa nostra epoca di stress – un’oasi di “verde” spirituale, cioè di naturalezza e distensione, tanto preziose per il delicato equilibrio psicosomatico.

La miglior cucina buddista si mangia ovviamente nei templi, quasi sempre nell’atmosfera di raccolta tranquillità di un angolo di giardino, vicino ad uno stagno o a pietre muschiose ombreggiate di felci, tra scorci di tetti ricurvi dalle scure tegole satinate, tenui strutture di legno, infissi a bianchi pannelli di carta. Occorre prenotare per tempo, perché la preparazione è molto laboriosa (nulla è acquistato già pronto) e i monaci di solito cucinano per la propria comunità.

Esistono però anche luoghi specializzati, dove spesso non occorre prenotazione, quasi sempre vicino all’ingresso dei templi. Alcuni hanno una lunga tradizione, come il famoso “Ikkyu” del tempio di Daitoku-ji a Kyoto, che vanta più di 500 anni di storia. Sono locali dall’aspetto lindo, raffinatamente rustico e senza pretese, e riesce difficile definirli ristoranti: si ha più l’impressione di essere ospiti, ci si rilassa e si ritempra lo spirito.

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Entrata in Giappone dalla Cina con la cultura che il Buddismo portò con sé, la cucina dei monaci s’insinuò pian piano in tutto il paese insieme con le pratiche religiose. Poi, con la diffusione della setta Zen nel XIII secolo, finì per influenzare profondamente la cucina casalinga. Tanto che è arduo trovare una linea di demarcazione netta fra la normale cucina di tradizione piuttosto antica (che ha escluso carne, latte e tutti i prodotti da essi derivati fin quasi alla fine del XIX secolo) e quella dei templi buddisti (che esclude anche pesce e uova).

Nel racconto “Il sonno” lo scrittore contemporaneo Murakami Haruki, attento osservatore delle piccole cose quotidiane, descrive il pasto di mezzogiorno di una coppia di giapponesi attuali: tagliolini di grano saraceno in brodo, tofu fresco, alghe wakame in vinaigrette alla salsa di soia. Potrebbe benissimo essere quello dei monaci di un tempio buddista.

La cucina buddista non è per iniziati, dunque, giacché moltissimi suoi piatti si trovano sulle mense normali. La cucina macrobiotica ne ha in gran parte diffuso i principi in Europa, tuttavia mi pare sussistano alcuni malintesi. Il più grosso è quello secondo il quale, in quanto cucina vegetariana, esclude la carne perché sarebbe un nemico dell’organismo umano. La cucina buddista, infatti, esclude tutti i prodotti di derivazione animale soltanto per motivi religiosi.

L’importanza precipua delle proteine nell’alimentazione è conosciuta fin dall’antichità, perciò queste non mancano nella cucina buddista. Sono però quasi tutte ricavate dalla soia (la “carne vegetale”), trasformata in molteplici modi. Non si consumano quindi sostanze scarsamente proteiche, come si pensa spesso quando si parla di cucina buddista come cucina vegetariana. Le verdure hanno una funzione importante, ma complementare, come del resto nella cucina occidentale, per mantenere l’equilibrio organico.

Nessun fanatismo, dunque, ma molto comune buon senso. Nessun mito, nessun mistero. Quella buddista non è una cucina esoterica, né la cucina del miracolo. Non promette particolare vitalità e longevità, anche se certo può aiutare a far evitare le malattie più comuni della nostra epoca. Fra i monaci buddisti gli esempi di vitalità e longevità sono numerosi, ma si tratta allora di tutto un regime di vita e di un modo di pensare e di comportarsi, di respirare persino, che qui sarebbe fuori luogo analizzare.

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Agli occidentali appare certo come una cucina “esotica” per gli ingredienti, i sapori, gli accostamenti, la presentazione. Tuttavia, più che per l’attrazione dell’esotico, mi pare sarebbe utile avvicinarsi ad essa per prendere atto di un diverso modo di alimentarsi che rispecchia un’altra cultura e che può essere senz’altro un utile cambiamento e apportare benefici.

Come i monaci zen sono un po’ i francescani del buddismo, così la loro cucina è molto sobria, anche se spesso raffinata. Niente dunque della ricchezza d’aromi, salse, spezie e ingredienti pregiati tipica per esempio della cucina cinese. Banditi anche gli eccessi come gli odori troppo forti (aglio, cipolla etc), le spezie, gli eccitanti e i grassi superflui, gli ingredienti sono semplici e sempre di stagione. Le costanti di base, indispensabili, sono i vari derivati della soia, fra i quali principalmente il tofu, il miso e la salsa di soia.

Gli ingredienti principali

Il tofu è un caglio di farina di soia e acqua, di color paglierino chiaro, né dolce né salato. I monaci lo preparano da sé, ovviamente senza alcun additivo, la gente comune lo compra già fatto (fresco di giornata, perché non si conserva a lungo). Il tofu ha moltissime varianti, sia per aspetto sia per consistenza e gusto. Può essere mangiato fresco, ma anche bollito, fritto, cotto in umido, conservato secco etc. Persino i resti della sua produzione sono usati in cucina in vari modi.

Il miso è un impasto morbido di farina di soia, fermentato. Varia di sapore secondo il procedimento di preparazione, ma, grossolanamente, si può dividerlo in miso di colore chiaro (dolce, si usa da solo o mescolato con gli altri), medio (rosso nocciola, salato) e scuro (marrone rosso, salato). Tutte le paste miso si usano principalmente per minestre, condimenti e salamoie.

La salsa di soia è forse la più conosciuta in Italia e alquanto diffusa in commercio. Senza grassi, salata, di sapore gradevole, condisce qualsiasi tipo di cibo sia crudo sia cotto e non ha gli inconvenienti di altre salse pepate o speziate.

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A tavola con i giapponesi

I grassi, usati con moltissima parsimonia e solo nei fritti, sono oli di semi vari o di sesamo. I semi di sesamo, sia bianco sia nero, sono poi anche usati, tostati, in molte ricette. Per condire e dare sapore si usano, oltre al miso e alla salsa di soia, sakè dolce, aceto di riso e alga konbu (una laminaria fatta seccare).

Anche altre alghe, che notoriamente hanno varie proprietà salutari, sono impiegate nei piatti quotidiani: sono le alghe wakame (Undaria pinnatifida, una lattuga di mare usata fresca o fatta rinvenire se conservata sotto sale o seccata), le alghe nori (secche, talvolta già insaporite, si presentano come sottili pellicole verde o marrone, di varia misura, usate di frequente per fare involtini di riso e verdure), le alghe hijiki (conservate secche) etc.

Come farine si utilizzano, oltre a quella di riso, quelle di grano saraceno (soba) e di frumento per vari tipi di pasta.

Fra le verdure, un certo numero sono diverse dalle nostre: rizomi di loto, germogli di bambù, radici di bardana, grosse rape bianche e allungate (daikon), patate igname (yamaimo, Dioscorea batatas), ambretta (Hibiscus abelmoschus), fagioli di soia, fagioli rossi azuki etc. A queste si aggiungono vari tipi di funghi: shiitake (Cortinellus shiitake) freschi o secchi, enoki (Flammulina velupites), molto pregiati matsutake (Tricholoma matsutake), shimeji (Tricholoma georgii) e parecchi altri.

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Ai pasti e durante la giornata si beve sempre il tè verde nelle sue varie qualità, in foglie o in polvere. Ci sono inoltre moltissime tisane di vario genere, bevute calde o fredde.

Si tratta spesso di gusti che si acquisiscono a poco a poco, occorre cioè “fare il palato” a sapori così diversi da quelli abituali, ma è una cucina che per il suo tono blando di solito piace anche al primo approccio. Un pasto completo, bilanciato sia come calorie sia come contenuto proteico ed equilibrio acido/alcalino, comprende generalmente almeno sette portate, che sono però di dimensioni assai ridotte: riso bianco (l’equivalente del pane), minestra di miso, verdure (al miso, al sesamo o all’aceto), piatto fritto o alla griglia, piatto in umido, tofu al naturale, tsukemono (verdure in salamoia). Queste ultime di solito chiudono il pasto, ma ora spesso si aggiunge la frutta.

Nelle librerie esistono ormai vari volumi di ricette e mi pare valga la pena provare a fare qualche esperimento, magari con qualche sbaglio, ma certo anche con qualche scoperta. Sarà un’avventura spirituale e concreta, che senz’altro appagherà animo e stomaco. E’ un modo antico, oltremodo umano di preparare i cibi, senza fretta e rispettando la natura alla quale ci si uniforma con umiltà e gratitudine, e di presentarli con una semplicità che si traduce in eleganza.




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