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Buddha – Gesù : le dieci chiavi del faccia a faccia

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DOSSIER BUDDHA, GESU’

Le dieci chiavi del faccia a faccia

di Eric Vinson

Cristianesimo e buddismo offrono due vie universali di salvezza caratterizzate da un potente altruismo. Fino a dove arrivano le loro affinità e quali sono le loro incompatibilità?

1- Il taumaturgo e il professore

GESU
GESU
Molti tratti separano il Buddha (alla lettera “il Risvegliato”) venuto dall’India e il Cristo (alla lettera “il Messia”) venuto dalla Palestina, in fondo così mal conosciuti sia l’uno che l’altro e spesso in maniera leggendaria: per esempio il loro stato sociale – Gautama è principe e Gesù è artigiano – o la loro giovinezza – l’uno ha avuto moglie (i) e figlio mentre l’altro pare uno scapolo indurito. Altra differenza notevole: la durata della loro “vita pubblica”, iniziata dopo i trent’anni e consacrata egualmente all’insegnamento itinerante con un gruppo di discepoli. Prima di essere accusato di bestemmia e ucciso a 33 anni, quella del “falegname di Nazaret” dura al massimo tre anni, mentre quella del “grande Silenzioso” si svolge su un mezzo secolo e termina tranquillamente verso gli ottanta anni, Nessuna meraviglia allora che non sia possibile paragonare la quantità degli insegnamenti raccolti in durate tanto dissimili: le poche parole riferite dai Vangeli non possono in nessun modo confrontate con la somma “oceanica” dei discorsi – le sutre – attribuiti al Buddha.

Tanto più che lo stile e la forma sono profondamente diversi: i convincenti Vangeli sono prima di tutto dei racconti di vita, concisi e incisivi, mentre le sutre sono lezioni – logiche e ripetitive – destinate alla memorizzazione. Abbiamo dunque da un lato un taumaturgo dal carisma scintillante , che agisce e guarisce in maniera miracolosa esaltando la fede dei suoi fedeli, e dall’altra un saggio professore, posato e sereno, che si rivolge prima di tutto all’intelligenza dei suoi alunni. Un esempio impressionante: varie volte Gesù “risuscita dei morti” (l’amico Lazzaro, la figlia di Giairo o il figlio della vedova di Naim) per compassione dei loro parenti in pianto; nelle stesse situazioni, Gautama propone loro una saggia lezione di realismo, aiutandoli a comprendere che ciò che è nato deve morire…

2- Il Liberato e il Resuscitato

Il rapporto con la morte è un punto chiave dei percorsi del Cristo e del Buddha. Tutti e due vogliono assumere e vincere questa suprema estremità, ma, sembra, con logiche inverse.

Per Gautama, morire consente di insegnare in atto i fondamenti del suo messaggio (il Dharma): da un lato la fugacità di tutte le cose e l’ineluttabilità della fine sotto il gioco delle cause e degli effetti (il karma); dall’altro la liberazione da tali limiti con il raggiungimento del “perfetto nirvana”, “risveglio “senza pari, denotato dall’estinzione definitiva dell’individualità e del doloroso ciclo delle trasmigrazioni (il Samsara). All’opposto Gesù vuole liberare l’umanità una volta per tutte dalla morte e dal peccato, “redenzione”che non può essere ottenuta che dal proprio sacrificio e dalla sua “resurrezione”. Il Buddha dunque trionfa della finitezza umana cancellandosi definitivamente nella “vacuità” – l’assoluto buddista – e invita gli altri a fare la stessa cosa seguendo le sue tracce fino al loro proprio Risveglio. La vittoria del Salvatore invece arriva ad assicurargli una presenza eterna “alla destra di Dio Padre”. Una gloria senza fine alla quale egli associa i membri della sua Chiesa, assistendoli quaggiù “fino alla fine del mondo” e promettendo loro la salvezza nell’al di là, cioè la loro resurrezione. Così il cristiano beneficia della promessa di resuscitare un giorno “in Cristo” dopo la propria morte carnale, mentre il buddista è chiamato a divenire alla fine lui stesso un buddha, aspettando a sua volta il risveglio – o liberazione – con l’aiuto di coloro che vi sono già giunti.Obbiettivo da realizzare in una sola vita dal primo e in numero indeterminato (ma ridotto quanto è possibile) di esistenze dal secondo.

3- Salvatore divino o maestro di sapienza?

Nelle due tradizioni c’è una certa inseparabilità del messaggio e del messaggero. Ma il buddismo vede quest’ultimo passare in secondo piano dietro la dottrina, mentre il cristianesimo fa della persona del Messaggero l’essenziale del messaggio.Questo è il nucleo di questa “buona notizia” (etimologia greca della parola “vangelo”), secondo la quale la parola di Dio si è incarnata in “Gesù, il Cristo-Messia annunciato dalle Scritture”, “Figlio unico di Dio e Dio lui stesso”, “pienamente Dio e pienamente uomo”, “Salvatore morto e resuscitato per tutti gli uomini”, come ripetono i testi canonici. Non è dunque aderendo alla figura del Buddha che si diventa buddisti, ma comprendendo – e soprattutto applicando – le sue istruzioni, cosa che fa di lui prima di tutto un maestro di sapienza. Al contrario si diventa cristiani consegnandosi totalmente nella fede alla persona “umano-divina” del Salvatore, salvo poi praticare il meglio possibile i suoi esigenti comandamenti. Al “Siate voi stessi la vostra propria isola, il vostro rifugio” del Risvegliato (Parinirvanasutra)”, Gesù risponde: “Io sono la Via, la Verità, la Vita: nessuno viene al Padre se non per me” (Gv 14,6). Questo fa del Cristo l’unico mediatore fra gli uomini e Dio, mentre numerosi buddha sono all’opera nel samsara, visto il numero immenso di esseri che hanno raggiunto il risveglio dai tempi “senza inizio e senza fine”.

4- “Persona“ o “non sé”?

Insieme divina e umana, la persona del Cristo è veramente la chiave della teologia e dell’antropologia cristiane. Per gli eredi di Gesù, Dio e l’uomo sono persone: esseri liberi, singolari, relazionali, spirituali. Fatto a immagine di Dio, l’uomo ha un’“anima eterna” tratta dal nulla da quell’Essere divino che esiste di per sé con qualità permanenti (“Egli è Colui che è”, “È l’Onnipotente”,ecc.). Questo teismo è in contraddizione con l’insegnamento fondatore del Buddha quanto alla non esistenza di tutti i fenomeni. Il nesso logico e metafisico fra il Creatore e le sue creature è attestato dalla Chiesa fin dall’inizio, quando il concetto centrale di “persona” è stato elaborato dapprima, attraverso la Trinità, per distinguere le tre persone divine (Padre, Figlio e Spirito) per applicarlo poi, a poco a poco, a tutti gli esseri umani. Questa individualizzazione è diventata uno dei marchi di fabbrica dell’Occidente, in particolare attraverso la secolarizzazione portata dalla dottrina dei diritti degli uomini. All’opposto di questa visione “sostanziale” dell’essere umano, il buddismo considera quest’ultimo come la riunione – contingente e momentanea – di cinque “aggregati” psicofisici: la materia e la forma; le sensazioni; le percezioni; le formazioni mentali e infine la coscienza. Transitoria perché sprovvista di un “sé” durevole, ma fattore di attaccamento e dunque di sofferenza, questa combinazione è puro e semplice frutto della legge di causalità. in altri termini un concorso di circostanze…

5- Dio o vacuità?

“Nel buddismo tutto si spiega senza Dio, mentre nel cristianesimo nulla si spiega senza di Lui”. Questa formula ben chiara del teologo e specialista del buddismo Dennis Gira riassume l’abisso che separa ai suoi occhi le due religioni. Eterno, personale, creatore e trascendente, l’assoluto monoteista sembra infatti senza misura comune con l’universo creato, e questo lo oppone parola a parola all’assoluto buddista, l’impersonale e immanente vacuità. Indescrivibile, essa è soltanto evocata come insieme “vuota di caratteristiche” e inseparabile dalle apparenze mutevoli, come afferma la celebre Sutra del Cuore: “la forma è Vuoto, il Vuoto è forma”. Per il Dharma nulla così è eterno in questo mondo sottoposto al cambiamento perpetuo, come è sintetizzato dai Quattro Sigilli, pilastri di tutte le scuole buddiste: “Tutti i fenomeni composti sono impermanenti; tutti i fenomeni composti sono sofferenza; tutti i fenomeni sono sprovvisti di sé; il nirvana è pace, estinzione”. Quattro enunciati fra i quali si dispiega la “Via del Mezzo” buddista, che rifiuta gli estremi simmetrici del nichilismo e dell’eternalismo e lascia in sospeso la questione dell’esistenza definitiva di checchessia (Dio, anima, mondo…).

6- Due strade spirituali

Allora, niente in comune fra Gesù e Buddha? Non proprio! La loro opposizione può rivelarsi fragile se si esaminano alcune sottili dottrine che sono nate a loro riguardo nel corso dei secoli. Da un lato molti cristiani hanno per lungo tempo considerato Gesù come un semplice uomo “adottato da Dio. Dall’altro lato molti buddisti intendono il Risvegliato come un “essere divino incarnato” quaggiù per compassione, per “salvare” gli esseri. Lo attestano le leggende e i miracoli collegati al suo concepimento e alla sua nascita, da cui la quasi divinizzazione di fatto di cui gode nella religione popolare – statue faraoniche e culto delle immagini lo dimostrano. Senza parlare delle scuole cinesi e giapponesi “della Terra pura”, basate sulla devozione radicale verso il Buddha- Salvatore Amida (“Luce infinita”) e il suo “paradiso” di “Grande Felicità”…

Se la distanza fra Gesù e Gautama “in persona” può sembrare a prima vista considerevole, le loro eredità alla lunga convergono talora in modo stupefacente. Lo attestano i modi di vita concreti che essi hanno ispirato, e in particolare il monachesimo da lungo tempo centrale nelle due tradizioni. Guardando indietro, il paragone fra i due fondatori riassume bene le alterne vicende di ogni confronto del cristianesimo e del buddismo. Una esplorazione a specchio che collega la somiglianza degli atteggiamenti religiosi “di territorio”, delle differenze culturali e dottrinali irrefutabili e infine degli enigmatici incontri di fondo… Per poco che si superi la rigidità della lettera in nome del cammino spirituale e dell’esperienza vissuta.

7- Carità o compassione universale?

“Perché facciamo tutto questo?” domanda il lama nel bel mezzo della meditazione davanti a discepoli sbalorditi. “Per sviluppare il nostro potenziale”, “trovare la felicità”, “soffrire di meno”. osano rispondere alcuni coraggiosi. “Sì, pensa il maestro, ma non è l’essenziale. La nostra pratica ha un solo scopo: liberare tutti gli esseri dalla sofferenza e stabilirli nella felicità”. Questo aneddoto riassume a meraviglia l’altruismo radicale dal buddismo mahayana. Infatti vi regna in modo assoluto la bodhicitta (“spirito di risveglio”), motivazione del bodhisattva (“essere di risveglio”) che sviluppa all’infinito la sapienza e l’amore universale fino allo stato di buddha, anche a costo di rimanere per sempre nelle sofferenze del samsara per liberarne meglio gli altri. Questo ideale è assai sconosciuto in Occidente, dove il buddismo passa prima di tutto per una “sapienza pratica” centrata sulla ricerca del benessere individuale. Eppure il Dharma – compreso nella sua versione theravada – esalta tradizionalmente l’amore (maitri in sanscrito) e la compassione (karuna). Focalizzato così sulle diverse forme della bontà (dono, non-violenza, ecc.), il buddismo avrebbe allora a che vedere con i valori evangelici, dalla “misericordia” all’“amore dei nemici”. Da una parte e dall’altra infatti sembra davvero che si incontri la stessa etica ascetica, la stessa cura di un comportamento saggio e giusto, utile a sé e agli altri, con tutto ciò che esso implica di autocontrollo, di disciplina personale, di amore al silenzio e alla contemplazione. E a dir vero, le vite dei santi di Oriente e di Occidente – per esempio quella del tibetano Milarepa (1040-1123) e dell’italiano Francesco d’Assisi (1182-1226) – si assomigliano assai, proprio come la pratica e il vissuto quotidiano dei discepoli coerenti del Buddha o del Cristo. Fra lotta spirituale, abnegazione e generosità senza limiti, non si tratta sempre in fondo di dare la propria vita per quelli che si amano?

“Somiglianza di superficie”, risponderanno i teologi cristiani, sottolineando le logiche profonde inconciliabili. Per definizione, essi spiegano, il Dharma rifiuta l’idea di persona come una pericolosa illusione egoistica. Ora, senza reale personalità, la relazione autentica diviene impossibile, sia tra gli uomini, sia con la divinità. Questo incontro gratuito di singole libertà che costituisce il cuore della fede cristiana sotto il nome di “carità”, non potrebbe essere assimilato all’amore-compassione buddista, supponendo che tali nozioni occidentali possano rendere i concetti orientali in questione. Si assomigliano, sì, ma non è che in apparenza, non in essenza, in significazione, né in valore…

Il ragionamento è solido, ma non per questo incontestabile. Infatti quale altra realtà umana se non l’amore potrebbe essere all’opera sulla via del buddhisattva, pronto a dare “fino al suo corpo” per degli esseri, amati ciascuno “come la propria madre o il proprio figlio unico” secondo le massime tradizionali? Che cosa altro se non l’amore nell’intima relazione iniziatica che unisce il maestro, il discepolo e il Yidam – divinità personale – nel cuore del buddismo tantrico vajrayana? Quando la neutralizzazione dell’egocentrismo e il dispiegamento delle perfezioni opposte (generosità, pazienza, sforzo…) orientano evidentemente le pratiche e il comportamento buddista, molto maligno sarebbe chi potesse differenziarle dal puro dono di sé che fonda la morale cristiana sotto il nome di “amore del prossimo”.

8- Due vie etiche

Ma quanto c’entra dunque la morale con il buddismo, che oggi seduce tanto perché lo si ritiene “cool”, cioè lassista in materia di disciplina personale? Sulla strada dell’etica non si può fare a meno di constatare che il Dharma e il cristianesimo camminano insieme, o almeno fianco a fianco. Che si parli di “meriti” o di “buone azioni”, di “atti negativi” o di “peccati”, la via comune delle due tradizioni è innegabile e da una parte e dall’altra si mette la stessa insistenza sulla lotta contro l’egoismo, l’orgoglio, il narcisismo e le altre passioni (collera,desiderio, avarizia, pigrizia…) La lista dei “peccati capitali” non ricalca forse quella dei “veleni mentali”? E la paura dei frutti amari del “cattivo karma” quella dei “castighi eterni”?. Gli inferni buddisti, particolarmente raffinati, valgono bene il loro equivalente occidentale…

9- Scienza dello spirito contro carità attiva

Se c’è una vera differenza fra le nostre due religioni in materia di altruismo e di progresso spirituale, essa deve essere ricercato piuttosto dalla considerazione del posto che vi occupa la sapienza o gnosi. Per il Dharma infatti la conoscenza e l’amore sono inseparabili come il giorno e la notte, allo stesso modo della vacuità e delle apparenze ordinarie. Da ciò deriva una cultura dell’esperienza metafisica diretta che si incarna nella ricchezza dei metodi spirituali – “i mezzi abili” – sviluppati dalle tradizioni buddiste. Trasmessa da guide qualificate, questa “tecnoscienza dello spirito” ha un peso grandissimo sull’attuale successo del buddismo in Occidente, avido della sua filosofia potente, della sua psicologia sottile e del suo arsenale pratico. Basta guardare la affascinante diversità dei rituali, meditazioni, yoga spiegati dalla sua corrente tibetana… Dagli espedienti più concreti (reliquie, porta fortuna benedetti, immagini sante) ai supporti più raffinati, c’è veramente di che soddisfare il corpo, la parola e lo spirito…

Ora di fronte a una tale profusione di strumenti per lavorare su di sé, il cristiano può sembrare abbandonato a se stesso e il cristianesimo assai sprovveduto. Esso, tuttavia, ai suoi inizi non separava la sapienza e l’amore spirituale, e sono attestati nei primi tempi della Chiesa la cura della conoscenza e i metodi per raggiungerla. Ma con i secoli questa cultura dell’interiorità si è a poco a poco indebolita, fino a perdersi talora, soprattutto nel campo cattolico. E questo a profitto di una deriva scolastica e dogmatica più preoccupata di controllare istituzionalmente le anime che di condurle a una vera esperienza spirituale. Non c’è che da vedere la diffidenza secolare manifestata dalle autorità della Chiesa nei confronti dei mistici, che portano appunto al più alto grado l’unione dell’amore e della conoscenza… Preso fra un moralismo puritano e uno stretto razionalismo anch’esso chiuso alle cose del corpo, dell’affettività e dell’invisibile, il cristianesimo occidentale non ha avuto più che da rivolgersi verso il modo esteriore. Mossa dal suo attivismo umanistico quanto proselita, la Chiesa ha coperto il mondo di scuole, di università, di ospedali, di asili, prefigurando così l’attuale infatuazione caritativa e umanitaria. Uno slancio che non ha quasi equivalenti in Oriente dove, “bene ordinata”, la carità attiva aveva il dovere di “cominciare da se stessi”, cioè l’applicazione individuale del “medita e diventa prima di tutto buddha, per poter veramente aiutare un giorno gli altri“. Poco comprensibile per i moderni, questo primato della contemplazione sull’azione ha avuto almeno il merito di limitare – un poco – l’implicazione delle istituzioni buddiste negli affari temporali. da cui deriva forse una facilità più grande di quella dei loro omologhi cristiani ad applicare dei comuni ideali di compassione …

10- Gesù e Buddha riconciliati?

Ai cristiani l’esteriorità conquistatrice, ai buddisti l’interiorità illuminante? occorre certamente sfumare una simile suddivisione, perché si assiste infatti, da alcuni decenni, a un certo ritorno dei battezzati verso l’esperienza spirituale, specialmente attraverso il movimento carismatico, i procedimenti psico-spirituali di “guarigione interiore” o il rinnovamento di metodi tradizionale (esercizi ignaziani, preghiera del cuore, ecc.). Ritornando ai fondamenti della “iniziazione cristiana” e promovendo il dialogo interreligioso, il cristianesimo sembra attenuare il suo dogmatismo degli ultimi secoli per meglio tener conto dell’uomo concreto, “corpo-anima-spirito”. È un ritorno alle radici che certo non è estraneo al successo, nel suo territorio, del neo-arrivato buddista, particolarmente competitivo nel campo dell’interiorità e del pluralismo… Simmetricamente il Dharma, che credeva di essere il cuore di un mondo senza cuore, non ha potuto rimanere impassibile di fronte a questi cristiani venuti a casa sua per evangelizzare, sì, ma anche per curare, istruire, nutrire quelli che non lo erano. Donde l’attuale implicazione senza precedenti degli eredi del Buddha negli affari della terra e dei suoi “dannati”, delle figure militanti considerevoli come il tailandese Sulak Sivaraksa, il vietnamita Thich Nhat Hanh o il monaco zen americano Bernard Glassman, che fanno il loro nuovo cavallo di battaglia della lotta per la giustizia e la pace mondiale, l’ambiente o l’educazione. Allora, la “civiltà dell’amore” di Giovanni Paolo II e il “buddismo impegnato” del Dalai Lama sono una stessa battaglia?


(da Le monde des religions, 18)
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