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Il Premio Nobel Aung San Suu Kyi paradigma delle sofferenze della Birmania

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Liberate il Nobel per la pace
Liberate il Nobel per la pace

Il Premio Nobel Aung San Suu Kyi paradigma delle sofferenze della Birmania

La stupenda terra di Birmania fin da quando si è resa indipendente dall’Impero Britannico, nel 1947, ha sempre avuto una storia travagliata fatta di elezioni democratiche smentite da colpi di stato militari.

Il primo colpo di stato militare avvenne nel 1962, portò al potere il Generale Ne Win che dal 1962 al 1988 impose un tipico regime comunista, basato su un’economia rigorosamente collettivista che ridusse il Paese alla fame, mentre la repressione fece migliaia di morti.

Nel 1988, dopo le rivolte studentesche, che provocarono migliaia di morti, Ne Win si dimise, e fu proclamata la legge marziale, mentre il generale Saw Maung organizzò un altro colpo di stato che portò al potere un’altra giunta militare, questa volta di ispirazione nazionalista, ma come si sa i dittatori non hanno colore, sono dittatori e basta.

Nel 1990, si tennero per la prima volta in 30 anni le elezioni libere. La Lega Nazionale per la Democrazia (partito di Aung San Suu Kyi, Premio Nobel per la pace nel 1991) ottenne la maggioranza assoluta dei membri dell’Assemblea Costituente (392 membri, su un totale di 485), ma i militari rovesciano l’assemblea popolare, ed arrestano Aung San Suu Kyi.

Inizia un periodo difficile per la Birmania, che cambia nome in Myanmar. La giunta militare sposta la capitale nazionale da Yangon verso un inaccessibile e sconosciuto luogo situato al centro del Paese, chiamato Naypyidaw, per garantire una maggiore sicurezza in caso di proteste e di difesa in caso di un’invasione da parte di Paesi ostili. Nella nazione divampa una feroce guerra civile che causa migliaia di morti.

Aung San Suu Kyi rimessa in libertà nel 1995, viene nuovamente arrestata nel 2000, liberata nel 2002, e nuovamente arrestata nel 2003.

Nel settembre 2007 i monaci buddisti guidano in tutto il Paese le manifestazioni contro il rincaro dei prezzi e la violenza della giunta militare al potere.

A Yangon è stata anche circondata dalla folla la pagoda di Shwedagon, il tempio più importante del buddismo birmano, chiusa dopo che lì i monaci avevano dato vita alla forma di contestazione più originale e lesiva nei confronti della religiosità locale, rifiutando le tradizionali offerte di cibo se portate dai militari e dai loro parenti e sostenitori (offerte rituali che consentono di procedere nel ciclo delle reincarnazioni verso il Nirvana).

Il regime birmano reprime questa rivolta nel sangue, la polizia carica i manifestanti con i manganelli, spara sulla folla e arresta migliaia di monaci, dei quali si perde ogni traccia.

L’ONU è bloccata dalla Cina in ogni tentativo di adottare una risoluzione di condanna nei confronti dei militari birmani, infatti sussistono dei rapporti privilegiati legati all’interesse cinese per i giacimenti di gas e petrolio birmani che Pechino condivide con la Russia, altra grande in sabbiatrice di qualsiasi provvedimento di denuncia.

In questi giorni la Birmania è salita nuovamente agli onori, anzi ai disonori, della ribalta internazionale per il nuovo arresto della 63 enne, Premio Nobel per la Pace, Aung San Suu Kyi in carcere, per una contestata violazione degli arresti domiciliari a pochi giorni dalla sua rimessa in libertà (prevista per il 27 maggio 2009) e ad un anno dalle libere elezioni promesse dal regime militare.
La violazione consiste in una misteriosa intrusione nella sua casa-prigione di un cittadino americano (John William Yeattaw, 53 anni, del Missouri) definito dagli avvocati di Suu Kyi come un «imbecille». L’ex moglie dell’uomo, un veterano del Vietnam, ha dichiarato che soffre di disturbi della personalità e a causa del suo stato di salute psichica riceve una pensione di invalidità dal Dipartimento per gli affari dei Veterani di guerra.

L’uomo ha attraversato a nuoto il lago che lambisce la villa dove la leader birmana ha trascorso agli arresti 13 degli ultimi 19 anni e si è introdotto in casa facendo violare alla San Suu Kyi il divieto di ricevere visite, telefonate ed e-mail, obbligo al quale il Premio Nobel si è attenuta negli ultimi 6 anni.
Le nuove incriminazioni sono evidentemente il pretesto cercato dai generali per prolungare ulteriormente gli arresti di Suu Kyi, la cui popolarità non è mai stata intaccata dalla detenzione: il prossimo anno sono previste elezioni generali, promesse dalla giunta ormai da qualche tempo nell’ambito della «road map verso la democrazia». Promesse a questo punto del tutto svuotate di contenuto, alla luce delle nuove incriminazioni contro Aung San Suu Kyi.
Per il suo partito, la Lega nazionale per la democrazia, tutta la vicenda è un complotto. La San Suu Kyi, rischia di essere condannata a cinque anni di reclusione nel famigerato carcere di Insein, condanna che equivarrebbe ad una condanna a morte.

Anche in questa occasione la comunità internazionale e l’ONU non intervengono per protestare contro il cinico governo birmano, sempre a causa del sostegno garantito dagli influenti vicini, in particolare della Cina che con il suo sostegno politico, ma anche economivo, rende vane le sanzioni economiche imposte al regime birmano dagli Stati Uniti e dall’Unione Europea.


20 mai 2009 de Gianni de Talon

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